Crimson Peak (2015), una fiaba nera

Ero in pausa pranzo il giorno in cui, sfogliando le varie news cinematografiche del periodo, mi imbattei nella prima immagine rubata dal set dell’ultima fatica del regista messicano Guillermo del Toro. Leggendo la didascalia, appresi che si trattava di un film dell’orrore ambientato in una magione inglese di fine Ottocento. Cast superlativo (Jessica Chastain, Tom Hiddleston, Mia Wasikowska). Film dell’orrore. Provai un misto di esaltazione, perché ero rimasta incantata dal Labirinto del Fauno, ma anche timore; l’idea della casa stregata non è che proprio mi esaltasse. Troppo cliché. Troppo difficile spaventare così, oggi.

L’horror è un genere un po’ particolare, che conosco piuttosto bene grazie ad un fidanzato appassionato, quindi conoscevo i rischi in cui sarebbe potuta incorrere una produzione del genere. Continuai a seguire le news con lo stesso stato d’animo combattuto, fissando i trailer con aria critica, dicendo in giro che a me sarebbe bastato che il buon Guillermo facesse una delle sue struggenti, bellissime fiabe nere. Come Il Labirinto del Fauno e la Spina del Diavolo, per capirci.

La speranza si riaccese ad Ottobre scorso, mese di uscita del film: prima di proclamare il silenzio stampa ed evitare di leggere anche solo una riga che parlasse dell’opera, – esattamente dal lunedì prima dell’uscita al sabato, in cui lo andai a vedere, seguii, com’è mia consuetudine, le interviste agli attori e al regista. E notai che tutti si sgolavano nel ripetere che il film era un “gothic romance.”

Assunsi lo sguardo del Gatto con gli Stivali di Shrek. Allora, mi dissi, forse c’è speranza. Non vi sto a dire quanto io ami la letteratura dell’Ottocento, il gotico, Edgar Allan Poe e via di seguito. Se lo facessi, non avrei modo di parlare del film, mi toccherebbe scrivere un trattato. Ma torniamo a noi. Finalmente Crimson Peak uscì in Italia e, il primo sabato di programmazione, eccomi al cinema. Avevo preteso dal mio fidanzato che scegliesse lo spettacolo con la sala più bella, posti centrali, fila con sovrapprezzo. Arrivammo, ci sedemmo. Quando si va a vedere un film che si è molto atteso, di un regista che adori, con attori che adori, di un genere che, sulla carta, dovresti adorare, l’hype è altissimo. Le aspettative pure. Ma altrettanto alto è il rischio che qualcosa che si è molto aspettato sia deludente.

E allora cos’è Crimson Peak? Un gioiello d’artigianato, omaggio assoluto ad un genere – letterario, cinematografico, artistico. Un film di nicchia che completa idealmente la trilogia iniziata con la Spina del diavolo, proseguita col Labirinto del Fauno. Del gotico puro riprende ambientazioni, soluzioni, temi. Non cerca la sorpresa o lo stupore come siamo abituati oggi, nel 2016, ma avrebbe stupito e spaventato un pubblico vestito di crinoline e cappelli. È come un trompe-l’œil: una storia nuova che avrebbe potuto essere scritta centoquindici anni fa, un penny dreadful (ri)trovato su una bancarella.

Edith Cushing, la protagonista del film interpretata da Mia Wasikowska, è l’unica che non sa cosa l’aspetti. Perché noi, questa storia, o storie simili, le abbiamo già viste, lette, amate. Nella brughiera, abbiamo incontrato il fantasma di Catherine bussare disperata alla finestra di Heathcliff,

“Heathcliff, it’s me, I’m Cathy, I’ve come home/

I’m so cold, Let me in a your window”

(Kate Bush, Wuthering Heights, 1978)

 

Nella brughiera, abbiamo intravisto il fantasma troppo reale della moglie folle di Rochester. Sappiamo che dentro le decadenti magioni inglesi, l’amore – un amore eccessivo, morboso, malato, assoluto, romantico, nero, si affianca alla morte e alla distruzione. Così, nella Caduta della Casa di Usher, in Ligeia. Che aristocratici affascinanti dall’accento straniero cercano, dalle giovani che incontrano, di succhiare la linfa vitale – il sangue o i soldi.

Ed è assolutamente questa la storia che Del Toro racconta. Sa che la riconosceremo, vedendola. Vuole, anzi, che ce ne accorgiamo, soffermandosi su abbracci imbarazzatamente troppo lunghi, sguardi lucidi, ed eloquenti allusive, battute. È una trama nota, svelata, che cita ed omaggia di continuo (Argento, Bava), non banale e prevedibile, ma assoluta perché archetipica. Quando prendiamo in mano un libro di fiabe, non sappiamo forse, fin dalle prime righe, come si svolgerà? Può, anzi, una fiaba, anche se nera, scostarsi da quelle tappe che la rendono tale e, per questo, immortale?

Ma Crimson Peak non è un romanzo gotico riscoperto su una bancarella. È il tentativo di riportare in auge il genere che ha dato vita all’horror così come lo conosciamo, stabilendone le tappe e le modalità, poi distrutte e ricostruite in libri e film. È un’opera uscita nel 2015, che svela anche altri universi di omaggi e citazioni, sapientemente amalgamati tra loro. Troppe righe andrebbero spese sulla casa, creatura vivente e set costruito in ogni suo dettaglio, sulle scenografie e la fotografia sontuose, splendide, visivamente emozionanti e su cui persone certo più preparate di me avranno scritto a iosa. Io mi soffermo sulla forte presenza, oltre al rosso cremisi, del verde e del blu, molto usati nei film dell’orrore degli Anni ‘80 e ’90, e sull’uso simbolico del colore degli abiti.

Come già nel bellissimo Dracula di Bram Stocker diretto da Coppola, le due figure femminili del film, Edith e Lucille, ricalcano Mina e Lucy. Vestita di colori chiari e luminosi la prima, (bianco, cipria, oro, giallo), di colori scuri o accesi la seconda, (il rosso, su tutti, ma anche blu e nero), le due donne si differenziano anche per tessuti e acconciature: Edith sfoggia acconciature morbide, rasi e sete scivolate, abiti a volte ampi. I lunghissimi capelli biondi spesso sono sciolti sulle spalle, quasi a renderla una figura eterea. Lucille, invece, imprigiona la chioma corvina in strette trecce appuntate sul capo, avvolgendosi in abiti sontuosi, aderenti ma pesanti, che la chiudono fin sotto il mento coprendole anche le mani, come fossero corazze, non vestiti, anzi: travestimenti.

Il film si colloca in un momento storico preciso e denso di significato: il 1901, primo anno del Ventesimo Secolo. La dicotomia tra passato e presente, tra il XIX secolo, ancora avvolto dalle nebbie del incertezza e della superstizione ed il XX, secolo delle grandi scoperte scientifiche, del progresso e della modernità così come la intendiamo noi, è fortissima in Crimson Peak. Da un lato c’è il futuro, l’America. Una società di pari dove i titoli nobiliari sono qualcosa di estraneo e sconosciuto; dove la propria fortuna si crea lavorando, nel mito del self made man di cui il padre di Edith è una rappresentazione.

Dall’altra parte, invece, abbiamo gli Sharpe. Affascinanti e spiantati, misteriosi e visceralmente legati, incantano gli americani con i loro talenti. Lucille, una ispiratissima Jessica Chastain, suona il piano con prodigiosa bravura; sir Thomas, visionario ingegnere interpretato dal sempre ottimo Tom Hiddleston, costruisce marchingegni così geniali da non essere compresi. Inglesi freddi ed eleganti, vestiti con abiti vecchi di ottima fattura, rappresentano il passato, il secolo trascorso. Schiavi di un nome altisonante che li costringe comunque a vagabondare per il mondo in cerca di finanziamenti, troveranno in Edith l’occasione per un possibile riscatto. È lei, aspirante scrittrice di romanzi d’orrore già visitata dal fantasma della propria madre il ponte di collegamento tra i due mondi, creatura del presente ossessionata dal passato.

S

P

O

I

L

E

R

!

 

La vecchia Europa si innamora della giovane America

Uno dei temi cari alla letteratura e, conseguentemente, anche al cinema del Novecento, è il leitmotiv della vecchia Europa, culla della civiltà ormai sofferente e corrotta, vincolata a leggi e regole del sangue, schiava di un’aristocrazia sclerotizzata e marcia, che si innamora della fresca e giovane America, terra di sogni e promesse, dove il passato può essere cancellato e nessun retaggio viene ereditato e si può essere ciò che si vuole cancellando il passato. Così la nobile Rose di Titanic si invaghisce, nel suo viaggio disastroso verso New York, dello scapestrato e non troppo onesto Jack Dawson; così Humbert con Lolita, nel capolavoro di Nabokov. Thomas Sharpe, baronetto inglese schiacciato da una eredità – e da un passato, da cui vorrebbe forse fuggire, rimane vittima, lui che avrebbe dovuto essere carnefice, del fascino del nuovo, dalla speranza per il futuro rappresentato dalla freschezza di Edith.

Ultima moglie di una serie di sventurate, Edith, l’unica americana e non casualmente la più giovane, rompe il sistema messo a punto dai fratelli Sharpe poiché, nell’ingranaggio, è essa stessa il motivo di rottura. Ce lo dice già Lucille quando, di fronte all’irremovibile decisione del fratello di chiederla in moglie, obietta che è “troppo giovane.”

“Tu sei diversa dalle altre,” dice, colpito dall’entusiasmo dell’americana Thomas. È lì che si accende la speranza, il futuro, il regno delle possibilità, lontano da Crimson Peak, casa–prigione che sussurra e respira, scricchiola e trasuda, sprofondando su se stessa, nella terra argillosa e color sangue.

 

“I fantasmi sono eventi destinati a ripetersi.”

È la battuta con cui si apre e si chiude La spina del diavolo, il primo film di Guillermo Del Toro che tratta di fantasmi, ma è anche il filo conduttore della poetica di Del Toro.  Come immagini cristallizzate nell’ambra, o fotografie impresse su una lastra, i fantasmi ripetono un particolare momento, in un loop eterno da cui non possono fuggire. Thomas e Lucille non sono ancora spettri, ma dei fantasmi hanno la maledizione. Anche loro, seppur vivi, sono costretti a ripetere eventi violenti già vissuti – eliminare la donna che impedisce loro di stare assieme, in nome dell’amore e della sopravvivenza soltanto.

“Guarda me. Io sono il futuro,” dice Edith a Thomas. Lontani dalla magione, bloccati da una tempesta di neve in una stazione di posta, finalmente soli, la ragazza offre al marito, prigioniero del passato, la speranza di una vita nuova, diversa, possibile. Potrebbe spezzare le sue catene, liberarsi da Crimson Peak, fermare il circolo eterno ed infernale che li ha inghiottiti – uscire dal Maelstrom.

 

Il mito di Barbablù rivisitato

Ho detto che Crimson Peak è una fiaba nera. Il mito a cui forse si rifà di più, è senz’altro quello, assolutamente iconico, di Barbablù. Anche qui la giovane sposa è l’ultima di una lunga serie. Anche qui viene infranto il divieto imposto, ed Edith scende nei sotterranei trovando gli indizi che la porteranno a comprendere il piano messo a punto dai fratelli. Rispetto alla fiaba classica, tuttavia, Del Toro inverte i ruoli canonici. Barbablù non è più il marito crudele, che invece s’è davvero innamorato, ma la cognata spietata. Thomas diventa l’aiutante, che attira su di sé le ire della sorella nel tentativo di salvare Edith – non se stesso. Sir Sharpe sa che non può sfuggire a Crimson Peak.

Così, quello che prima sembrava solo un inquietante braccio di ferro tra una sorella sola e disperatamente gelosa ed una sposa novella non in grado di ambientarsi, diventa uno scontro furioso in una paesaggio onirico, così bianco e allucinante da sembrare il punto d’incontro tra il regno dei vivi e quello dei morti, come in effetti è. Ma una delle cose più potenti e moderne di Crimson Peak è che, nonostante il sacrificio di Thomas e la sua presenza fuggevole, Edith si salva da sola. È lei che affronta la furia distruttrice di Lucille, straziata dalla perdita dell’unico amore della sua vita. È lei che prende in mano la sua vita e la affronta, unica eroina della sua storia.

 

Cosa siamo disposti a fare, o a diventare, per amore?

In Crimson Peak c’è l’inganno, il tradimento, il soprannaturale. Ma, soprattutto, c’è l’amore, motore principale della storia, motivo di dannazione per i protagonisti tutti.

Edith abbandona ogni cosa per seguire Thomas, nobile ma spiantato, fin nella sperduta tenuta in mezzo alla brughiera. Per amore, l’amico d’infanzia McMichael la insegue, affrontando il gelo di una tormenta, pur di raggiungerla il prima possibile. Ma coloro che si sono immolati disperatamente sull’altare dell’amore – di un amore sbagliato, corrotto, immorale, sono Thomas e Lucille Sharpe.

Prigionieri di Crimson Peak da bambini, legati al passato come i fantasmi che la infestano – e che, su di loro, non hanno alcun effetto, vi rimangono da adulti, non riuscendo né potendo slegarsi dall’evento terribile che hanno compiuto tra le mura imponenti della casa avita,dopo aver travalicato il limite imposto dalle convenzioni sociali per non doversi separare mai.

Così Thomas, per amore della sorella, partecipa e copre le nefandezze di Lucille, pur provandone orrore, divenendo, con lei e come lei, un mostro. Ma per amore di Edith la tradirà, ed è struggente il dialogo tra i due, che suona più o meno:

“Avevi giurato che non ti saresti innamorato,”

“Lo so, ma è successo.”

 

La furia di Lucille, amante abbandonata e tradita, è funesta e terribile, anche verso l’amore della vita, ormai perduto. Per Thomas, ha sacrificato ogni cosa, violato ogni legge, dedicato l’intera vita. E nemmeno nella morte vi sarà ricongiungimento. Lo spettro del fratello si mostra a Edith, ripetendo l’istantanea dell’ultimo suo atto da vivo – proteggere lei dalla sorella e, nel rivedere l’amore che ha perso, Lucille cede, si distrae. La ritroveremo intenta a suonare il piano, ombra scura tra altre ombre scure, sola, come quando l’abbiamo incontrata la prima volta ed Edith e Thomas ballavano assieme, guardandosi negli occhi.

F

I

N

E

!

 

Un sospiro strozzato, quasi un singhiozzo. Questa è stata la mia reazione a caldo dopo aver visto Crimson Peak. Avevo appena finito di vedere una fiaba nera struggente e triste, che non poteva avere altro finale che quello dato. Curato, perfetto, intenso in ogni dettaglio, era quello che mi aspettavo eppure era diverso.

A freddo, per tutte le ragioni che ho espresso più ampiamente sopra, Crimson Peak si è cristallizzato nel mio cuore come uno dei più bei film del 2015 (l’ho visto due volte al cinema: alla seconda ho portato con me la Cicala Sara). Con mio sommo dispiacere, non è stato candidato agli Oscar, che pure avrebbe meritato per la fotografia eccezionale, le scenografie ed i costumi.

L’unica contestazione che faccio è che la campagna pubblicitaria nei mesi che hanno preceduto l’uscita nelle sale, è stata fuorviante: Crimson Peak non è, come era stato descritto, un film dell’orrore spaventoso. È un film gotico d’amore. C’è del sangue, molto, ci sono alcune scene violente, ha delle tematiche forti che giustificano il rating alto, ma la sua magia è nell’atmosfera d’altri tempi, la stessa in cui ci caleremmo leggendo un racconto di Poe o il Frankenstein di Mary Shelley. Dovete vederlo, se non l’avete fatto, con questo spirito, senza pensare ai fantasmi e all’orrore, senza cercare lo spavento, lasciandovi trascinare dai sentimenti e dalle passioni represse, a stento tenute in cuori solo all’apparenza freddi, dall’atmosfera così classica ed archetipica dei corridoi di Crimson Peak, gotici ed austeri, dai suoi sussurri sinistri.

E ora, in attesa che esca il blue-ray, per gustarmi questo film per la terza volta, magari  sotto un plaid e con una coppa di gelato in mano, vi saluto.

 

Claudia

Foto credits: supergacinema.it

4 Commenti

  1. AleRandy 28 Gennaio 2016
    • Cicale Chic 28 Gennaio 2016
  2. AleRandy 28 Gennaio 2016
  3. Cicale Chic 28 Gennaio 2016

Rispondi a AleRandy Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *