Due parole su The Hateful Eight

 

Vi avevo preannunciato che l’avrei visto. Avevo persino espresso delle perplessità al riguardo, da fan timorosa di essere delusa. Ma poi, finalmente, l’attesa è finita: domenica scorsa mi sono seduta al cinema con la mente aperta e le dita incrociate, ché Tarantino, io ve lo dico, è uno dei miei registi preferiti.

Sono uscita dalla sala ore dopo – il film è lunghissimo, 3 ore e 7 minuti, organizzatevi di conseguenza, con un groviglio di idee e sensazioni. Alcune cose mi erano piaciute infinitamente, altre un pochino meno, ma solo ieri, leggendo una recensione inutilmente dura su Internazionale mi sono resa conto che a me The Hateful Eight è piaciuto esattamente come gli altri film di Tarantino, tanto. Certo ha qualche difetto, ma la caratterizzazione dei personaggi, il gioco di battute e situazioni che si viene a creare, il miscuglio di generi e citazioni che ingloba lo rende un altro piccolo gioiello.

Forse non è il film migliore di Tarantino, ma è una sua creatura bellissima, che rielabora ancora una volta in maniera convincente la sua poetica: violenta, esagerata, catartica, intensa.

Non solo: Tarantino resuscita un genere, il western, rendendolo spaventosamente moderno, mescolandolo al giallo: di più, pone gli attori sul palco di una sorta di teatro, creando l’emporio di Minnie, allo stesso tempo zona franca e campo di battaglia. Ma andiamo con ordine: per buona parte del film, come si evince anche dai trailer, otto loschi figuri sono costretti a dividere lo spazio limitato e ristretto di un emporio perso nella neve. Fuori, infuria la bufera, metafora e specchio della catarsi che si verificherà anche all’interno. Prima di esplodere, tuttavia, i personaggi parlano, si raccontano, si confrontano e scontrano.

 

I dialoghi

Tarantino è un maestro nello scrivere i dialoghi. Ci vuole un’abilità tutta particolare per creare delle battute che siano così ben amalgamate tra loro: piene di sottintesi, argute, caratterizzate. Ci vuole un regista visionario per ridare fiato ad un genere che era in auge quarant’anni fa, dandogli un’impostazione teatrale. Western che ruba al teatro, fa suoi aspetti dei film gialli senza perdere l’impronta così visibilmente tarantiniana. Eppure quest’opera vi riesce, rielaborando il passato in chiave moderna innovativa, tenendo lo spettatore incollato alla sedia ad ascoltare monologhi e battute che sono solo la punta dell’iceberg di psicologie più complesse, di cui noi non possiamo che intravedere la punta. Questo vuol dire creare dei personaggi che hanno spessore, vivi e vibranti.

I detestabili otto

I detestabili otto si scrutano, si spiano, si scontrano. Si annusano come bestie feroci, stringono alleanze, sospettandosi l’un l’altro. C’è qualcosa che non va, nell’emporio di Minnie. C’è qualcosa che non va, negli Stati Uniti usciti zoppicanti dalla guerra di secessione, di cui il rifugio in mezzo alla neve diventa il simbolo. I contrasti che ancora dividono gli americani si ripresentano qui, tra le quattro mura sgangherate del Wyoming, dove nordisti e sudisti si osservano guardinghi e la mano scivola un po’ troppo velocemente sul grilletto.

Ma in fondo, non dovrebbe? I detestabili otto sono brutte persone. Tutti, nessuno escluso. E Marquis Warren, il protagonista, se vogliamo, della vicenda, non si discosta dagli altri: è cattivo, bugiardo, sadico esattamente come i suoi compari. Non esistono buoni e cattivi. Esiste una frontiera, selvaggia e impervia, dove la giustizia spesso si chiama vendetta; dove un sudista inferocito, forse un brigante, può diventare lo sceriffo di una cittadina sperduta tra i monti. Dove le colline e le vallate sono infestate di banditi pericolosi, soldati congedanti con disonore, cacciatori di taglie.

Il sangue.

Le scene catartiche di Tarantino, dove il sangue scorre a fiumi, non sono una novità. Rappresentano una firma del regista, la ricerca di un eccesso di realismo che si tramuta a volte in esagerazione e goliardia, ma hanno la stessa forza liberatoria delle antiche tragedie greche. La catarsi si adegua alla mattanza che, però, non è mai gratuita e fine a se stessa. Esagerata sì, inutile questo no.

Domergue

Jennifer Jason Leigh è candidata all’Oscar 2016 come migliore attrice non protagonista, e io faccio il tifo per lei perché il personaggio di Daisy Domergue esce di forza da qualsiasi stereotipo femminile che vi può venire in mente, tranne quello che la vede profondamente astuta.

Non è bella, non è fine, è pericolosa molto più di un uomo. Ironica e intelligente, tiene testa al resto del cast con battute beffarde. L’aspetta la forca, eppure nemmeno per un istante cede a suppliche o disperazione, dimostrando invece forza e resistenza che nemmeno le percosse brutali del cacciatore di taglie che la sta portando al patibolo piegano e che lei vive con soave disinteresse. Perché Domergue è un lupo in mezzo ai lupi, una bandita pericolosa sulla cui testa c’è una taglia altissima. Di nuovo, nella poetica di Tarantino le donne non sono un semplice contorno: sono assassine pericolose, determinate, forti, che non temono di doversi sporcare le mani. Sono eroine letali, da temere, che nulla hanno da invidiare agli uomini. E allora Daisy, che porta il nome di un fiore, è infida e bugiarda e pericolosa, e lo sa Ruth, il cacciatore di taglie detto il boia, che la tiene incatenata al proprio polso temendo una sua fuga, o peggio.

Il maggiore Marquis Warren

Quanto mi è piaciuto Samuel L. Jackson in questo film non riuscirò a spiegarvelo. Quella che ci regala con il maggiore Warren è senz’altro una delle sue performance migliori e più intense. L’enorme forza di questo personaggio, protagonista putativo del film, sta soprattutto nell’essere quanto di più lontano possa esistere da un eroe cinematografico, perché sotto la divisa da maggiore della cavalleria si cela un uomo disposto a tutto, che nulla ha da invidiare ai suoi compagni bloccati nella neve. Astuto e dalla lingua lunga, cacciatore di taglie quasi per passione, svela intrecci e fomenta dissidi solo per il gusto di vederli esplodere. Potrei parlare per ore di Warren e di tutti gli spunti che mi ha fornito il suo personaggio, ma poi mi toccherebbe cadere nel tunnel dello spoiler.

 

I difetti.

Ho detto che The Hateful Eight non è uno dei migliori film di Quentin. Se ho trovato la storia convincente, i dialoghi eccezionali, il cast da fuochi d’artificio (tra cui figura Tim Roth, che adoro), le musiche superlative, debbo però confessare che c’è qualcosa nel complesso che non ha funzionato. C’è un punto – il momento del flashback, in cui, forse a causa della durata complessiva del film, si perde un po’ il ritmo.

Lo dico a malincuore perché sono consapevole che il flashback è una delle firme di Tarantino che spesso lo invoca quando l’intreccio si sta per sciogliere, eppure qualcosa, qui, non è andato come avrebbe dovuto. Ma è talmente un’inezia, questa, che non vale la pena di considerarla. La verità è che The Hateful Eight è davvero un bel film, e grazie a lui andrò a recuperare qualche vecchio film di Sergio Leone, di cui ormai non ricordo che scene slegate, che non ho mai visto con l’attenzione che meriterebbero. L’amore per il cinema, in fondo, trionfa sempre.

Claudia

 

Credits foto: IMDB

11 Commenti

  1. almafachino 12 Febbraio 2016
    • AleRandy 12 Febbraio 2016
      • Cicale Chic 12 Febbraio 2016
    • Cicale Chic 12 Febbraio 2016
      • almafachino 12 Febbraio 2016
        • Cicale Chic 12 Febbraio 2016
          • almafachino 12 Febbraio 2016
          • Cicale Chic 12 Febbraio 2016
          • AleRandy 12 Febbraio 2016
  2. Cicale Chic 12 Febbraio 2016
    • AleRandy 12 Febbraio 2016

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