High Rise di J.G. Ballard, la recensione

 

È un libro sottile, dalla copertina nera, quello di High Rise, opera di James Graham Ballard che ho finito di leggere da qualche giorno, . Inizialmente, l’idea era di recensirvelo in concomitanza con il film di Ben Wheatley – che dovrebbe uscire a marzo in UK, a maggio negli USA e chissà se ci faranno mai il favore di farcelo vedere pure qua. Ma qualcosa è andato storto – o immensamente a segno, dipende dai punti di vista.

high rise - copertina

Dalla regia mi suggeriscono che la copertina del libro sia quanto di meno attraente sulla faccia del pianeta terra, quindi l’ho cambiata con un fotogramma del film.

In High Rise, Ballard crea un universo distopico verosimile, crudo ma realistico – profetico quasi, e lo fa con uno stile asciutto, rigoroso eppure piacevole da leggere, precipitandoci nel vortice di follia in cui scivola il suo romanzo, lasciando che il lettore osservi la caduta di un progetto – o il suo compimento. Fin dall’incipit, folle, assurdo, assoluto, ci mostra l’epilogo di una storia che colpisce come un pugno in pieno volto, costringendo il lettore stupito a leggere e rileggere più volte il primo capoverso, immergendolo già nell’universo alternativo creato.

La trama

Un enorme grattacielo, il primo di una serie di analoghe costruzioni innalzate nella periferia di Londra, raggiunge la sua massima capienza abitativa: tutti i quaranta piani che lo compongono vengono riempiti da uno stuolo di professionisti rampanti che replicano, nel mondo ovattato e bastante a sé dell’imponente grattacielo, gabbia luccicante, quasi creatura viva e pulsante, le reti e i collegamenti della società degli anni Settanta.

Ma non sono gli Anni Settanta quasi divenuti cliché delle ribellioni giovanili e della musica rock, quelli raccontati con chirurgica arguzia da Ballard: sono quelli di professionisti, vittime e carnefici del consumismo imperante, dominante, assoluto, creato dalle ceneri di un’Europa in fiamme; una società che ha scardinato i vecchi privilegi, retaggio dell’Ottocento, per porci di fronte a una nuova classe dirigente: affamata, ambiziosa, spesso priva di origini e valori, cresciuta in un boom economico tanto più intenso e rapido quanto più famelico, che non ha memoria dei passati conflitti – o forse ce l’ha ma li ha cancellati sotto beni di lusso, quadri di design, feste ed alcool. O forse non ha importanza quanto atroce e orribile sia il passato, ricadremo sempre nella barbarie alla prima occasione utile.

Narratore asciutto ed eterodigetico, Ballard in High Rise riesce con grande maestria e perizia a condurci attraverso il filo dei pensieri dei suoi tre protagonisti, guidandoci quando la violenza e l’esasperazione raggiungono livelli parossistici ed i pensieri si adeguano, quasi fossero malleabili agli eventi. Ma è davvero finzione, un universo alternativo, altro, quello raccontato da Ballard o non è, più semplicemente, una profezia oscura che puzza di un passato recente, dove ogni uomo, anche il mite vicino di casa, può trasformarsi in zelante carnefice?

High Rise: i personaggi

Robert Laing

Tre sono i protagonisti nelle cui menti Ballard ci fa soggiornare. Il primo, il protagonista della vicenda, è il dottor Robert Laing, proprietario di un appartamento posto al venticinquesimo piano. Giovane, divorziato, abbastanza ricco, guarda con un misto di alterigia e compiacimento gli altri inquilini. Inizialmente non si adegua al modo di pensare dei suoi vicini, e pare quasi uno spettatore esterno, la cui mente critica e brillante coglie immediatamente i segni della violenza sottesa esattamente come, da medico qual è, riconosce i sintomi della malattia negli individui. Il suo sguardo analitico trapassa con arguzia la gretta mentalità dei suoi vicini borghesi, tenta persino, inizialmente, di discostarsi dall’aria malsana e fetida dell’imponente grattacielo. Ma Laing, come noterà con compiaciuta amarezza Royal, l’architetto geniale, il costruttore dello svettante palazzo è, suo malgrado, l’anima stessa della sinistra struttura. Il borghese lucido, intelligente, abbastanza colto e brillante ma non troppo rapace, che si è adeguato nella placida oasi dell’insegnamento al suo appartamento ipermoderno posto al venticinquesimo piano – un po’ più su della metà, abbastanza in alto per non essere mescolato con la gente dei piani bassi. E allora perché precipiti anche tu con loro, Robert?

Un po’ per difesa, un po’ per necessità, si barrica insieme agli altri, compiendo più di tutti la trasformazione che l’universo chiuso e asfissiante del palazzo impone, trovando la personale via alla sopravvivenza nella non volontà – o non possibilità? di rovesciare il sistema.

Wilder

Del tutto speculare a Laing è Wilder. Padre di famiglia con un appartamento al secondo piano, sente gravare su di sé le migliaia di tonnellate di cemento poste sulla testa sua e della famiglia. Animato da giusti principi di egualitarismo e diritti, mascherati da un sentimento di rivalsa mai negato per i più abbienti inquilini dei piani alti, inizia una scalata verso il vertice del grattacielo che è, al contempo, un tentativo di rovesciare l’ordine costituito e destituirne la divinità creatrice – l’architetto Royal. Ambiziosa e crudele, l’ascesa lenta e faticosa di Wilder non ha come unico obiettivo lo scontro con il deus ex machina Royal; la sua scalata è anche giustificata, almeno finché non diventa un feticcio inservibile, dalla volontà di far conoscere al mondo l’assurda follia che si consuma nel grattacielo riprendendo ogni cosa accada dentro la labirintica costruzione. Di nuovo, l’intento nobile puzza della ricerca di gloria, la presunta eguaglianza serve solo a risolvere una questione personale. L’ascesa di questo Prometeo con muscoli guizzanti e determinazione da leone può avere un solo epilogo, nel giardino posto sulla terrazza spazzata dal vento del grattacielo, ed è quella a cui già i miti antichi ci hanno abituati – chi tenta di conoscere il divino o infrange le leggi comuni merita di cadere, come Icaro le cui ali di cera si sciolgono per la vicinanza con i raggi solari.

Anthony Royal

L’ultimo punto di vista che incontriamo è quello di Anthony Royal, il visionario creatore di una serie di grattacieli, mostri imperfetti, grandi gabbie sviluppate in altezza. L’architetto, troppo lontano dalla realtà per parteciparvi ma così profondamente immerso nel suo immenso zoo da capirne i movimenti reconditi, è spettatore e vittima del proprio sogno allucinato e distorto. Il suo aspetto etereo ricorda un’autorità religiosa o un santone ciarlatano e, già vittima di un incidente nel cantiere, osserva l’evolversi degli eventi attorno a lui. Dall’alto del suo appartamento posto in cima al grattacielo, lascia che si compia l’esplosione di violenza. Come una divinità indifferente o innamorata dell’imperfezione, osserva la sua creazione cadere e dannarsi, rovinarsi irrimediabilmente, e lo fa scivolando con essa: l’immenso zoo che ha creato, in cui le fiere affamate sono libere di cacciarsi l’un l’altro è anche la sua gabbia, quella che ha scelto di abitare. E allora, incapace di abbandonare il suo rifugio e di fermare il disordine, si erge a capo e simbolo, dall’alto della sua vetta piena di luce, di quanti in lui vedono un faro, almeno momentaneo.

Come tutte le divinità, verrà rovesciato dal dubbio e dallo scontro. Incapace di reggere la vetta e di comprendere il senso del nuovo ordine stabilito, perderà il potere e scenderà nell’abisso.

Le donne

Il punto di vista di Ballard non entra mai nella testa delle donne del grattacielo. Eppure, la forza di questi personaggi di cui conosciamo solamente le azioni tramite l’occhio dei tre protagonisti appare evidente mano a mano che il romanzo prosegue. Sono sempre presenti pur nell’assenza, vittime e carnefici dell’escalation di violenza che segue il deterioramento delle strutture del grattacielo.

È lui il vero protagonista del romanzo: i suoi continui blackout e la mancanza di servizi non fanno allontanare gli inquilini, determinati a non mollare le loro posizioni fino alle strenue conseguenze. Le donne, invece, sprigionano la loro forza solamente nella parte finale del libro. È una rivoluzione solo accennata, mai descritta, che si manifesta attraverso segni tangibili e potenti di un nuovo ordine. Archetipico, antico, tribale, violento anch’esso, ma luminoso come il sole che filtra dall’ampia terrazza del moderno grattacielo, tomba della società civile che si disgrega al primo blackout.

Cenni storici (e rischio spoiler!)

High Rise è un romanzo distopico scritto nel 1975 da James Graham Ballard (1930 – 2009). Uno scrittore di fantascienza e mondi alternativi, con un occhio acuto e troppo attento sui pericoli e i drammi della società dei consumi tecnicizzata, esasperata, metropolitana, vuota e vacua, violenta e disperata, meccanizzata e surreale. L’attualità e la brillantezza di questo romanzo breve eppure densissimo scritto negli anni Settanta è estrema. In High Rise, Ballard non affronta temi lontani da noi, ma scava dentro la nostra società, mette a nudo nervi ed emozioni, riesce a cogliere conflitti eterni della natura umana, esasperati dalla tecnologia e dall’urbanizzazione forzata, mostruosa, sviluppatasi dal secondo dopoguerra in avanti.

Pur nella sua attualità, Ballard raccoglie le esperienze degli studi di psicologia delle masse e dell’individuo che partono dagli inizi del Novecento  agli anni Settanta. In High Rise, gli abitanti di un immenso grattacielo si dividono in tre gruppi che ricalcano la ricchezza ed il prestigio posseduti dagli inquilini fuori dell’immensa costruzione. Ma se, all’aria aperta, le tensioni sociali si incanalano e sono meno evidenti o abilmente mascherate, nel condominio progettato dall’architetto Royal il cemento e l’altezza pesano, gravano anzi sulle teste di quanti vedono la cima come una piramide feudale impossibile da scalare.

L’enclave dei piani alti, alla stessa maniera, prova sprezzo e ripugno per coloro che sono in basso, base marcescente, rozza e volgare, chiassosa e irrispettosa. Nello scontro tra le diverse gerarchie sociali, chi sopravvive è il borghese, sprezzante figlio della realtà quotidiana, che non tenta nessuna scalata, limitandosi a brevi incursioni nei due mondi in lotta. È Laing, il dottor Laing, colui che Royal identifica come l’anima stessa dell’edificio, il suo abitante più vero, l’unico vincitore della lotta interna nel grattacielo. Ed il motivo è presto detto: Laing non si muove. Laing si accontenta del suo posto, rimanendo confinato nell’appartamento al venticinquesimo piano che ha comprato con un mutuo vergognosamente lungo, abbastanza in alto da non soffrire i disagi dei piani bassi, non troppo in alto per non dover cadere vergognosamente sotto la scure dei suoi vicini ambiziosi. Con lui, attraverso lui, Ballard apre e chiude il cerchio del suo racconto.

La banalità del male

Quale trasformazione, stregoneria o maledizione fa trasformare un gruppo di professionisti rispettabili, onorabili, tranquilli, persino un po’ anzianotti in un branco di lupi affamati, capaci di violenze e coercizioni incredibili, macchiandosi di atti indegni di un essere umano? La ricerca del fantascientifico e del distopico, per Ballard, è innanzi tutto un approfondimento dell’animo umano, anche nella sua parte più bieca. Non è un caso che l’individuo, con tutte le sue idiosincrasie e contraddizioni, sia al centro delle opere di Ballard: si ravvisa, nel suo lavoro, l’eco di topoi e di dibattiti che si trascinano dal dopoguerra agli anni Settanta.

Il Novecento, secolo illuminato quanto orribilmente macchiato da crimini orrendi, rappresenta l’immenso grattacielo costruito da Royal, anch’esso tripudio di tecnologia e innovazione, teatro, allo stesso tempo, di un abbrutimento che ha eguali solo se guardiamo al passato recente. Meno di dieci anni prima che Ballard scrivesse High Rise, usciva il saggio della filosofa tedesca naturalizzata americana Hanna Arendt da cui il titolo al capoverso. In esso la Arendt raccontava il processo, tenuto a Gerusalemme all’inizio degli Anni Sessanta, di un gerarca nazista. Osservando le varie sedute, la filosofa si interrogava su come, uomini e donne normali, banali, zelanti impiegatucci che potrebbero davvero essere i nostri vicini di casa, siano riusciti a macchiarsi di una delle pagine più orrende della storia recente. Il male, dunque, non si annida nel corpo di mostri crudeli e riconoscibili, ma nei panni, meno sospetti, dell’uomo comune, misero ed insignificante. E, per questo, fa più paura, perché chiunque, in qualsiasi momento, può tirare fuori un aspetto intrinseco alla natura umana.

Il secolo della ragione e della fede incrollabile nell’Uomo è terminato da un pezzo. Conquistando il cielo e piegando la Natura, ci siamo solo illusi di essere altro da ciò che siamo sempre stati. Mascheriamo sotto le regole del vivere civile, impulsi e passioni che rendono le nostre anime non monoliti, bensì specchi rotti, spezzati, fatti di infiniti frammenti di cui nemmeno noi conosciamo l’esistenza. La società dei mass media, la psicologia delle folle, tentano anch’esse di spiegare fenomeni e movimenti cui intere popolazioni aderiscono – hanno aderito, nel tentativo di dare un senso ed un perché al comportamento umano.

Un romanzo che ispira tanti collegamenti e riflessioni, non può che essermi piaciuto. Tra i mille pregi di Ballard, va senz’altro ascritto quello di avere un’idea e di saperla spiegare attraverso una storia ben bilanciata, fondata ed espressa. La sua analisi della società moderna passa attraverso un’ipotesi plausibile e uno sviluppo distopico ma realistico e possibile. Questo avviene anche grazie ad uno studio dei personaggi attento e consapevole, che riescono a non perdere la propria identità pur smarrendosi nei labirinti del grattacielo cui si sono imprigionati.

L’occhio acuto di Ballard crea così un romanzo breve eppure denso di avvenimenti, spunti ed idee, che precipita il lettore in un vortice soffocante e asfittico, irreale ma non troppo assurdo, distopico eppure intimo, profondo. Un’opera senz’altro interessante, che mi è piaciuto leggere e che ho finito con una certa fretta, precipitata anche io nel tunnel senza fondo in cui ci trascina l’autore. Ho apprezzato l’approccio ai personaggi, bilanciati, realistici nella loro follia, e la presentazione che Ballard fa di essi, raccontandoci solamente il loro punto di vista, assolutamente bastante.

Una riflessione sul film (prima di vederlo)

Non sarà stato facile, per Wheatley, realizzare un film su un’opera solo all’apparenza semplice. Leggendo in giro le prime recensioni uscite dai festival in cui è stato presentato, ho letto pareri contrastanti proprio sull’operato del regista. Staremo a vedere – sappiate che, non appena uscirà in Italia, mi fionderò letteralmente a vederlo. Proprio oggi, tra l’altro, è uscito l’ultimo trailer di High Rise, che vi ho linkato sopra. L’ho visto mentre revisionavo la bozza di questo lunghissimo post, e ha confermato il mio entusiasmo. Nelle immagini ho visto davvero quanto già mi ero immaginata leggendo le pagine del libro: costumi, ambientazioni, scene, personaggi, sembrano aver ripreso dall’originale opera di Ballard parte del suo spirito. Ai posteri l’ardua sentenza.

Claudia

 

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