Ritorno alla metropolitana

In passato mi muovevo quasi sempre con in mezzi pubblici. Ero la classica pendolare che prima per studio, poi per lavoro, dalla periferia di Roma si muoveva verso il centro. Tutto questo, nella mia mente, viene associato alle immagini in bianco e nero degli emigranti con le valigie di cartone, più o meno. Ho macinato chilometri su chilometri, letto centinaia di libri, ascoltato milioni di accordi musicali mentre perdevo treni, aspettavo metro, mi appiccicavo sui vetri a mo’ di sardina, assaporavo odori da carri bestiame e prendevo spintoni.

Poi, circa un anno fa, il lavoro di freelance mi ha quasi costretto all’acquisto di un’automobile. Intendiamoci, ne avrei fatto volentieri a meno, sia per le spese ingenti che il possesso di una macchina comporta, sia perché vorrei veramente una città con mezzi funzionali e funzionanti, piste ciclabili e taxi a basso costo. Ma se lo voglio, credo che l’opzione migliore sia di cambiare città – sarebbe senza dubbio più semplice.

Ma torniamo a noi, della mia fidata compagna autovettura e del nostro rapporto parlerò un’altra volta.

A volte, molto raramente, mi capita di dover avere degli impegni nei quali la macchina sarebbe più che altro un impedimento: commissioni in centro che prevedono vari spostamenti, appuntamenti in luoghi dove è quasi impossibile parcheggiare, traversate che mi costerebbero troppo in benzina e in stress. E allora ritorno ai cari vecchi carri pubblici, come martedì scorso.

Appuntamento alle 12 in Campo de’ Fiori, un altro alle 16 in Piazza Vittorio e in mezzo un pranzo. E allora? Prendo la metro.

La mattina va tutto bene, a parte la mia ormai congenita insofferenza per gli spazi ristretti, soprattutto quelli in condivisione. La metro era piena come nella media di una qualsiasi metà mattina romana in gennaio. La cosa peggiore è stata però l’uscita, quando pensavo di averla guadagnata e invece delle eleganti signore, tanto negli abiti quanto poco nei modi, mi hanno spinta indietro con fare deciso: “AHO, MA TUTTI QUI DAVANTI DOVETE STA?”

“Sì, perché sto uscendo, e dopo mi farete una storia perché non l’ho detto prima!”

Insomma, a parte questo, sono giunta a destinazione con successo. Di successo sono stati anche gli esiti dei due appuntamenti, e il pranzo. Alla fine del secondo appuntamento mi sono intrattenuta con altre due delle partecipanti per un caffè. Chiacchierata piacevole, e il tempo è passato senza che quasi ce ne accorgessimo. Quando ce ne siamo accorte erano circa le 18. Un orario infausto per tornare a casa, un’ora di punta. Ma ogni giorno sopravvivono milioni di persone anche a questo. Se non fosse che proprio  quel giorno la metro si è rotta. Ci  accingiamo a prenderla, alla fermata, e vediamo che per un lungo tratto e già da un po’ il servizio era interrotto. Le mie compagne prendono un’altra percorso, potendolo fare; io resto sola.

Che cosa fare a quel punto? Nessun problema, ci ha pensato l’Azienda del trasporto pubblico, fornendo dei simpaticissimi autobus sostitutivi. Ho aspettato qualche minuto e ne è passato uno. “Almeno sono veloci”, penso tra me. Veloci ma strapieni, e va bene, ma sarei comunque arrivata sana e salva.

Intanto il traffico era congestionato, i ciclomotori cercavano di sfrecciare, gli automobilisti si annoiavano ascoltando il giornale radio e l’autobus ci metteva ben trenta minuti per fare un percorso (da Piazza Vittorio a San Giovanni) che in quello stesso tempo si sarebbe potuto fare a piedi.

A piedi. Sì. La mia mente logicamente e velocemente associato tutto questo e allora sapete che cosa ho fatto? Sono scesa e ho camminato, per due chilometri e mezzo, fino alla mia destinazione. E non ero l’unica.

Morale della favola: mal di piedi il giorno dopo, ma almeno sulla strada c’erano tanti bei negozi da guardare.

Sara

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