Crimson Peak Episodio 2 – Quale sarà il segreto dei diabolici Sharpe?
Dall’Autrice de “Il fisico di Chris Hemsworth” e dall’Autrice de “The Night Manager: la parodia” (cercateveli col tasto “cerca” che sennò ci si impalla il blog) la Cutichiccia Pa.rod.ia Records (che chiaramente non esiste), presenta il secondo episodio della parodia di Crimson Peak, che segue il primo, ovvio.
Tu, fricchettone, non sposerai mia figlia!
È l’alba. Anzi, è un po’ prima dell’alba. Mario B. Cushing, un uomo tutto d’un pezzo chiamato dai Viet-Cong “il diavolo bianco che scatarra e bestemmia,” si sta facendo la barba al Circolo.
Perché non utilizzi il bagno di casa sua, non ci è ben chiaro. Che sia tirchio? Che Edith ci si piazzi sempre prima di lui occupandolo fino all’ora di pranzo? Fa più figo? Ai posteri l’ardua sentenza. Per farsi la barba come vuole lui, tira fuori il coltellaccio con cui ha scannato un orso e inizia a radersi, già pregustando la colazione a base di fagioli e salsiccia: un pasto da uomo vero, duro. Mica come quel fighetto inglese che beve the e mangia biscotti, o come le Cicale che bevono caffellatte o aranciata e mangiano brioches.
Nel bagno, che pare una stazione, lo raggiunge lo scienziato pazzo di Pacific Rim che, dopo essere entrato nella testa del Kaiju, ha mollato tutto ed è andato a fare l’investigatore privato a Buffalo nel 1899. Probabilmente il Kaiju era drogato.
A quest’ultimo Mario B. Cushing, timoroso per la sorte della figlioletta, chiede di fare le pulci al passato di quella coppia di extracomunitari inglesi bevitori di the.
Per la sua principessina difatti, il Cushing vuole solo il meglio. Un uomo vero, maschio e virile, che maneggia armi, sputa nella tabacchiera, si ricuce le ferite col fuoco e ammazza dinosauri con un pugno.
“Oh, sai che c’è? Mi piace venire al Circolo di prima mattina, è tutto per me,” confessa Mario B. Cushing svelandoci l’arcano: è Edith, cuore di babbo, che occupa il bagno per ere geologiche. “Un giovane fricchettone inglese con la sorella acida. Voglio che indaghi su di loro,” ordina perentorio prima di radersi col coltellaccio di cui sopra. “Hanno qualcosa che non mi convince. Voglio i risultati il prima possibile,” conclude.
Frattanto ad Edith tocca una di quelle visite di circostanza fastidiose come una ceretta nelle zone bikini. Deve andare a trovare Alan McMichael. Guarda, stella, dispiace più a me che devo scrivere che a te. Ma vediamo di sbrigarci e risolvere questo pezzo di film assolutamente inutile ai fini della trama. La biondina entra dunque nello studio dell’allocco accollo fregandosene altamente di qualsiasi regola di educazione civile, dato che Alan è colto nel bel mezzo della visita. Tuttavia, Edith è scusata dal fatto che, come ricorderete, il dottorino annovera tra i suoi pazienti tanto Jimmy il carpentiere che Billy la capra.
Alan, per darsi un tono, ammonisce Jimmy di richiedere espressamente al farmacista di rispettare le dosi, come se questo fosse un burino ignorante incapace di svolgere il proprio lavoro, ma Edith, sfortunatamente per lui, non lo sta calcolando proprio. Si sguercia sui titoli dei libri pomposamente esposti, e Alan lì suda freddo dato che più della metà sono un unico blocco di cartone, come nei negozi di mobili.
“Cinquanta sfumature di grigio, Peppa Pig va in città, Malleus Maleficarum, Prolegomeni ad ogni metafisica (questo è di cartone), Il diavolo veste Prada, La Pimpa e Conan Doyle!” esclama entusiasta prendendo in mano il tomo.
“Ti consideri un investigatore?!” ironizza Edith con un sorrisetto saccente.
“No, non esattamente,” replica soave il belloccio, “ma lui è un oftalmologo proprio come me.” Ora, in base a quale sillogismo contorto Alan McMichael ponga se stesso sullo stesso piano di Sir Arthur Conan Doyle non ci è noto, e tra l’altro, destino beffardo, pure l’autore preferito è baronetto, ma questa gliela passiamo.
L’inventore di Sherlock Holmes prenderà il titolo di baronetto come i Beatles, nel 1902).
Edith è raggelata – come noi, da questo patetico tentativo di rendersi figo ai suoi occhi, e Alan ne approfitta per creare un’atmosfera romantica.
“Vieni, ti mostro la mia collezione di farfalle,” esordisce, e lei, che non ne teme le avances, lo osserva oscurare lo studio. Siccome però i poveri insetti le fanno un po’ schifo, McMichael ne approfitta per mostrare alla ragazza delle foto in cui sono rimaste impresse le immagini dei morti.
Tipo che uno si scatta una foto e sorpresa! Dietro c’è la faccia lugubre di un fantasma inebetito. La teoria di McMichael, che Edith ovviamente non ricorderà o che comunque le è inutile, è che i luoghi grazie a proprietà particolari della terra o chissà che cosa, possano trattenere l’impronta, l’immagine delle anime dei defunti. Che cosa gotica. Fa un po’ The Others.
“Forse notiamo le cose nel momento in cui dobbiamo vederle, ora che non esistono più le mezze stagioni,” osserva Edith che non è mica tanto impressionata da tutta questa storia, anzi.
“Non mi avevi mai parlato di questo tuo interesse,” dice per spezzare il silenzio di Alan che la guarda e sorride da solo.
“Non me l’avevi mai chiesto,” parte subito l’allocco. O l’accollo. Oh, gli dai una mano a certe persone e si prendono tutto il braccio. “Edith,” s’impiccia lui, “io capisco il tuo interesse per gli Sharpe ma, per il tuo stesso bene, procedi con cautela,” dice.
“Senti Ciccio,” mette subito in chiaro le cose lei, “tu sei stato a farti i cavoli tuoi fino ad adesso. E io me la sono cavata, in qualche modo, quindi stai tranquillo, che a me della sorella acida non me ne può fregare di meno, io è quel figo allucinante del fratello che voglio conoscere. Ma poi, cautela de che? C’ho più di vent’anni, devo fa’ per davvero la fine della Austen?”
Siccome gli avvertimenti di McMichael vengono presi con la stessa serietà di una profezia di Topo Gigio, Edith si lancia nel suo disperato tentativo di non morire di vecchiaia ancora vergine, esigenza spuntata fuori in occasione del primo incontro col fosco e tenebroso baronetto inglese Sir Sharpe.
Si appiragna così al bel fusto vintage, profittando del dorato autunno di Buffalo. Ed eccoli, che camminano a braccetto nel parco. Lui, poveraccio, è costretto a leggere, rileggere e commentare tutte le settecentoquarantasette pagine del romanzo dell’orrore scritto da Edith che, pronta e solerte, ha ben pensato di condividere col fascinoso nobile il suo presunto talento letterario. Lui, visibilmente provato, nasconde l’insonnia derivante dalla lettura notturna con dei vivaci occhiali da sole rotondi, così vecchi che sono tornati di moda.
Il momento, tuttavia, è di grande tensione, per il nostro baronetto dato che Edith, da autrice ansiosa qual è, nutre il desiderio morboso di conoscere nel dettaglio cosa pensi il suo Lettore di ciascuna riga vergata.
“No, no, Edith: ogni volta che ricomincio a leggerlo sembra ancora meglio,” ride quel pover’uomo di Thomas Sharpe alla settima bozza sorbitasi in quattro giorni. “E la storia d’amore, non m’interessa,” dice in fretta temendo, in cuor suo, che la ragazza possa ripensarci ed aggiungere qualche altro migliaio di pagine al suo tomo.
“Sarebbe solo un capitolo o due,” azzarda Edith che, dopo aver conosciuto Thomas, è più propensa ad inserire qualche smanceria nel suo romanzo.
Seeh, ragazzina, pensa sir Sharpe, mo’ ce casco. Due capitoli, come no! “No, no, a me piace così per carità!” la blocca.
“Finite di leggerlo e fatemi sapere cosa ne pensate,” soffia lei felice.
Sir Sharpe sorride, dietro gli occhialini neri che nascondono occhi disperati, rossi e gonfi di sonno arretrato. “Lo finirò adesso,” promette con un sorriso tirato. Il suo unico obiettivo al momento, in verità, è sedersi sulla sdraio che l’attende e dormire col libro in faccia finché non sopraggiunga la morte.
Edith rotea il suo ombrellino giusto in tempo per vedere Lucille intenta in un’operazione che avrebbe fatto gridare d’orrore la Cicala Claudia. Taglia il bozzolo di una farfalla e se lo rigira tra le mani.
Proprio sotto di lei, Edith nota un tappeto di farfalle morenti. Lucille, cui la triste fine dei poveri insetti suscita il buonumore, dà lezioni di vita alla biondina. Muoiono perché fa inverno, perché sono fragili, e le cosine fragili, bimba mia, vengono mangiate. Come fanno le formiche su questa farfalla ancora viva. A casa mia non c’è niente, ci stanno solo falene nere orribili. Che si mangiano, dici? Polvere e farfalle, temo, sono diventate cannibali.”
Mentre le farfalle muoiono male, i fratellini Sharpe si incontrano all’ombra di un albero. “Sei sicuro, ci hai pensato bene? La accendiamo?” chiede Lucille. “Io fossi in te chiamerei l’aiuto a casa. O il cinquanta e cinquanta. Non credo tu ci abbia pensato bene, Thomas. È soltanto una bambina!” esclama scandalizzata la donna.
“Ti ho già spiegato tutto. Niente racchie, chiudiamo in bellezza. E poi, che bambina, hai visto le tette? Ma… mi servirà l’anello.”
“Prendi un rametto come fa Robin Hood, no? Eccheppalle. L’anello è mio, me lo sono guadagnato mentre te giocavi col meccano. Dovrai ridarmelo,” aggiunge.
“Allora è meglio che mi auguri buona fortuna,” dice serio Sir Sharpe, “è l’ultima cosa che possiamo vendere, neanche gli occhi per piangere abbiamo più.” dice tetro.
“Ma quando te dice no, con questo bel faccino, svegliate! Tu non lo stai vendendo. Noi lo usiamo per comprare qualcosa,” sussurra l’amorevole sorella dandogli un pizzicotto sulle guance. Cosa staranno tramando i due fighetti inglesi?
L’incontro del terzo tipo tra Thomas Sharpe e Mario B. Cushing.
Impegnato nella sua attività parallela legata alla ristorazione, Mario B. Cushing scorge l’investigatore con un Kaiju nel cervello. “Ahooo, vie’ qua! Ce stanno ‘ste olive da assaggia’ senti che ‘bbone, so’ greche! Tiè, magna, magna!” lo accoglie calorosamente.
“Signor Cushing, non mi capita spesso di essere latore di cattive notizie,” dice masticando, “ma in questo caso, sfiga vuole che sia così.
E gliele consegno di persona. Tuttavia, non le legga qui che sennò le sue bestemmie si sentiranno fin sul K2.
Nonostante nell’aria di Buffalo riecheggi una strana eco che recita più o meno come “anvedi ‘sto cornuto,” a casa Cushing è ora di cena. Edith è tutta un bollore dato che il suo quasi ragazzo è tra gli ospiti. Lucille lo capisce e, preso da parte Tommino suo, lo invita a fare il grande passo.
“Edith, permettete una parola?” dice lui prendendo le sue manine tra le sue.
“Ecco, aspetta che chiamo mio padre,” dice lei allontanandosi. Lui rimane là, nel vano della porta come uno stoccafisso con l’anello un po’ pacchiano che ha rimediato dalla sorella e, per velocizzare la richiesta, si avvicina allo studio del Cushing.
Incrocia Edith e prova, per la seconda volta, a farle la dichiarazione. “Edith, so che non avrei alcun diritto di chiedervelo,” esordisce sempre per quella storia che tenta di muovere le ragazze a compassione, “ma io vorrei. Chiedervi di…”
“Aho, fighetto, viè qua’ co’ tu sorella che ve devo da parla’, capito?” ordina perentorio Mario B. Cushing palesandosi nell’idioma dei suoi avi. Edith gli rivolge un’occhiata caustica da “a pa’ ma non vedi che stai a rompe?” Thomas, invece, sbianca come se si trovasse di fronte ad una divinità norrena imbestialita.
“Allora Lady Lucille, Sir Thomas – che sei, aho, uno di quei giovinastri capelloni, i Beatles?” chiede sospettoso l’imprenditore.
“Magari,” soffia Thomas, “non stavo qui.”
Il momento è topico, ma Mario B. Cushing si è preparato bene il discorsetto da fare. “Immagino sia stata dura rendervi conto che non mi piacevate,” inizia aprendo la cartellina con le informazioni super segrete.
“Era molto evidente, signore, ma avevo sperato che col tempo…” replica Thomas conciliante, ma il costruttore perde le staffe.
“Ahooo fricchetto’ il tuo tempo è terminato. Finito, kaput,” grida.
“Potrebbe essere più chiaro, signor Cushing?” s’informa Lucille.
“Sarò più chiaro signorina, più di quanto immaginiate. Nei giorni scorsi, vostro fratello ha unito l’utile al dilettevole provandoce in maniera spudorata co’ mi fija. La mia unica fija, che se ce n’avevo artri sette come mi’ fratello a Sezze sai che me fregava,” spiega allungando le carte a Lucille.
“Io so di non avere una posizione né niente da offrire, ma il fatto è che…” ci prova nuovamente Thomas, ma Mario B. Cushing il discorso se l’è preparato proprio bene.
“Te stai a ‘nnamorà de’ lei, eh fricchetto’? Nun è così? Te la sei ‘mparata bene ‘sta parte.” Lucille porge le carte a Thomas, che le fissa e impallidisce.
“Mi fija m’ha chiesto com’è che nun ve potevo vede’. ‘Sto documento mi ha fornito la risposta. A ‘nfamomi, voi nun siete della Roma, voi siete della Lazio. E mi fija uno della Lazio, o il cui trisnonno lo era, come ner caso vostro, nun lo po’ sposà né ora né mai.”
Thomas Sharpe lo fissa con l’odio negli occhi, e Mario B. Cushing si gasa. “Che è, me voi menà? Questa è la prima reazione vera che vedo tua, fricchetto’!”
“Lei lo sa?” domanda Sir Sharpe con gli occhi lucidi e l’aria offesa e depressa.
“No, ma glielo dirò se non ve ne annate entro domani mattina,” minaccia il Cushing.
Sir Sharpe, che è un sognatore, tenta ancora la carta del convincimento. “Signore, so che stenterete a crederlo,” inizia, ma Mario lo interrompe.
“Ahooo, L’amate e tifate Roma. L’avete già detto,” grida staccando un assegno. “Tiè, signorina, che te me sembri la più assennata. Pija st’assegno e vedete da sparì,” ordina. “Lo vedi? È fin troppo generoso, ma pe’ mi fija questo ed altro! Ve lo do a due condizioni, però. La prima, è che pijate il prossimo treno pe’ Fidene, domani mattina.”
“Ma certo,” trilla Lucille sorridendo diabolica e appoggiandosi al braccio dell’offesissimo fratello, “e l’altra?”
“A Fricchetto’ parlo con te. Stasera devi spezza’ il cuore a mi fija. Baciate cor veterinario, dije che è brutta, fa’ come te pare, ma vojo che stasera lei prenda una tua foto e ce giochi a freccette. Ce la poi fa’?”
Thomas lo fissa con l’aria disperata ed infelice di un cucciolo preso e bastonate e buttato sotto la pioggia in una notte buia e tempestosa e la scena, magicamente, si sposta nella sontuosa sala da pranzo di sala Cushing.
“Rega’ a me gli occhi,” cattura l’attenzione Mario. “C’è qui il fricchettone inglese, nostro gradito ospite, che ci deve dare una notizia proprio inaspettata, mannaggia alla miseria zozza. Prego, fricchetto’ parla che te ascolteno.”
Gli occhi di tutta la sala si posano su sir Thomas Sharpe, baronetto, professione dipende: inventore al mattino, nobile snob al pomeriggio, mago la sera e cosplayer nei weekend. Incuriosito lo fissa Alan, che l’ha ammorbato per mezza cena con discorsi inutili mentre Edith, ignara di tutto, serena e beata rumina felice il suo coscio di pollo.
Sir Sharpe si alza e fissa Mario con odio. “Grazie, signor Cushing,” dice a denti stretti. Poi si rivolge alla platea in attesa. “Signore e signori, quando sono arrivato in America il mio cuore era colmo di spirito d’avventura. Pensavo che vi sparaste da mane a sera con gli indiani e foste tutti un grosso gruppo di hillbillies cannibali, totalmente all’oscuro di qualsiasi progresso della civiltà avuto dalla Mayflower ad oggi.
Qui, il futuro pareva però, nonostante tutto, avere significato,” dice fissando Edith negli occhi. “Ma per ora devo dirvi, bella ragazzi, addio. Forse ci rincontreremo quando saremo tutti dei gatti, davanti ad una pescheria che butta avanzi, magari.” (Qua Lettore, se mi tani la citazione diventi il mio eroe).
Edith comincia a sentirsi male. Non è ben chiaro se sia stato il pollo, i tre primi, i cinque contorni e la caterva di antipasti che s’è spazzolata via, a provocarle questo malessere, o la triste prospettiva che il tenebroso baronetto se ne vada via lasciandola illibata. O forse è allergica ai gatti, che ne sappiamo. Fatto sta che fissa Thomas a bocca aperta, sconvolta, e della mano del babbo posata sulla spalla neanche si accorge.
“Mia sorella ed io torniamo in Inghilterra. C’è arrivato un accertamento dell’Agenzia delle Entrate e tocca sistemare le cose prima dell’inverno, che scadano i sessanta giorni.”
Poi, mentre piove come se il dio del tuono Thor avesse indossato per sbaglio le mutande urticanti gentilmente regalategli da Loki, alza il bicchiere e propone un brindisi. “All’eterna amicizia!”
Ma la nostra eroina col cappero che brinda. S’allontana disperata dalla tavola, come se dovesse vivere per sempre in mezzo a quei burini pecorari compaesani suoi, anziché fuggire col fascinoso morto di fame inglese, titolato e perseguitato dalle tasse – e in effetti, poiché è esattamente quello, noi sconsolate diciamo a Edith che niente, è proprio una sfigata. Thomas, dal canto suo, vedendo la scena la insegue e la raggiunge sulle scale.
L’accertamento è già arrivato da un pezzo, e l’assegno del Cushing serve come il pane a casa Sharpe.
“Ci state lasciando?” soffia lei tirando su col naso e pensando, dentro di sé, dimmi di no, dimmi di no.
“Dobbiamo rientrare subito per curare i nostri interessi e saldare il commercialista,” spiega Thomas, bello e tenebroso come sempre, “niente ci trattiene in America,” si lascia sfuggire fissando il castigato vestito da pagliaccio di Edith.
Lei lo fissa con i lacrimoni. “Capisco,” soffia, e fugge sulle scale. Ma non è abbastanza. Lo sa sir Sharpe, inventore figo, mago, cosplayer e aiuto cuoco in agosto, lo sa Mario che prepara già la mazza da baseball da spaccargli sulla schiena. E allora insiste.
“Il vostro romanzo!” dice, e Edith qui si blocca e gli punta i suoi occhietti miopi addosso. “Ho letto le ventordicimila pagina nuove, ve le farò avere domani.”
“Grazie, molto gentile,” risponde lei piccata. Ma Thomas non ha finito. Eh no. “Volete ancora la mia opinione?”
Lei si gira, dall’alto del suo quinto gradino, replicando la volta che lui l’ha trascinata al ballo. “Se ci tenete,” sibila.
Ma a chi la vuoi dare a bere, eh Edith? Tu muori dalla voglia di sapere che ne pensa questo figo di Sir Sharpe della tua personale versione della Divina Commedia e Ricerca del tempo perduto assieme.
Il baronetto si concentra, poi rabbrividisce. “È ridicolmente sentimentale. Una palla proprio. Le sofferenze che descrivete,” dice raggiungendola, “non sono neanche la metà delle mie mentre vi leggevo. Gli spilli, mi servivano, per andare avanti e non addormentarmi su questa lagna epocale, pedante. La perdita, il dolore, che descrivete è chiaro che non li hai mai vissuti, radical chic dei miei stivali! Ma te che ne sai che vuol dire avere un ciocco di legno solo per scaldare una casa piena di spifferi, che stai qua in questa casa da burina arricchita quale sei! Tu ripeti quello che dicono le telenovele argentine e altri scrittori – scadenti, per altro.”
“Adesso basta!” tuona Edith quasi in lacrime, ma ormai Sir Sharpe è partito per la tangente e continua. “Vi mettete a descrivere i tormenti dell’amore, quando è chiaro ed evidente che l’unico tormento tuo è quando ti hanno spostato la ceretta dalle 10,30 a mezzogiorno. È chiaro che dell’amore non ne sapete niente!”
Edith tenta di fuggire come un’eroina romantica ma Sharpe, lanciato come Fantozzi durante la corazzata Kotiemkin, la blocca, mentre tutta la sala si mette ad origliare e la servitù distribuisce giustamente bibite e pop corn.
“Non ho ancora finito! Quale è il vostro sogno? Un uomo gentile? Un’anima pura da redimere, un uccellino ferito pucci-pucci che carino? La perfezione, non ha nulla a che vedere con l’amore, Edith. Tornatene al tuo piediscritto horror al più presto, per carità. Non sai niente dell’animo umano porca miseria, hai tagliato quei personaggi con l’accetta che manco la James ha osato tanto, ad empatia stiamo a zero. Non sai niente dell’amore o del tormento che l’accompagna insieme alle bollette da pagare, non sei che una ragazzina viziata!” esplode. E qui, Lettore, parte lo sganassone.
Violentissimo, che Edith è pur sempre la figlia di Mario, mica petecchie, tanto che Sharpe piroetta per quattro volte che neanche in un quadruplo Axel.
“Oooh” esclama la folla, dispiaciuta, dato che la battuta sul piediscritto era stata lungamente condivisa e, come abbiamo detto nello scorso episodio, Edith è simpatica come la sabbia nelle mutande.
Poi la ragazzina viziata corre in camera a versare ettolitri di lacrime e spararsi a manetta La solitudine di Laura Pausini in loop, modalità spaccatimpani, mentre Thomas fissa la folla a metà tra il cane bastonato e l’eroe maledetto, posto che questa frase abbia un senso, e Mario lo fissa a sua volta.
Il fricchettone, almeno una cosa l’ha fatta giusta. Ma la scena si chiude con Lucille, che ha rubato a Thor il fratellino e che, giustamente, protesta con un sentito temporale.
L’Amore trionfa sempre?
È mattino. O forse ancora notte. Dato che l’adorata figlia sta piangendo quasi ininterrottamente dalle 21,17 della sera precedente e, soprattutto, ha messo in loop la Pausini e non accenna a cambiare canzone, Mario B. Cushing è andato, come consueto, a farsi la barba al circolo. Informatosi sull’acqua, in mezzo a vapori maschi e virili (così lui dice), si appropinqua a radersi col solito coltellaccio scanna orsi. Non prima di aver sfruttato a fondo il personale chiedendo una ricca colazione, caffè, giornale, ammazzacaffè, un paio di pantofole nuove e uno stuzzicadenti. Ma un rumore, in mezzo ai vapori, lo insospettisce. Molla il coltellaccio e si aggira, armato solo dei suoi villici peli del petto e del catenone d’oro che fa tanto cafone, verso l’ingresso dei bagni, mentre di sottofondo il grammofono suona Franco Califano. Ma non c’è nessuno. Allora si riavvicina al lavandino, dove frattanto è successo un casino, l’acqua è uscita dappertutto, il coltellaccio è caduto. Mario si china a raccoglierlo dopo una poderosa bestemmia e, dietro di lui, un fan di Dario Argento si infila dei guanti di pelle nera, in una scena sputata a Profondo Rosso.
“Aho’ ma che ce stanno i guardoni, mo ar Circolo?” grida Mario B. Cushing.
L’assaltatore lo piglia per collottola e gli scaraventa la faccia sul lavabo. “A ‘nfamone! A cornuto! Manco er sangue m’hai fatto uscì” replica schifato il costruttore osservando l’opera. Ma l’assassino – perché l’intento è quello, Lettore, si accanisce su Mario e, dopo una serie di bestemmie e imprecazioni pare avere la peggio quando, con un colpo di genio, riesce a vincere lo scontro. “Aho’ a Mario, guarda che ce stanno le guardie che te vonno carcera’, occhio!” dice.
“Sti cornuti,” replica l’uomo. La distrazione gli è fatale, ahinoi, e l’assassino riesce infine a far sanguinare l’uomo cogliendolo di sorpresa. Nel bagno. Con un pugno.
La musica soave che ha accompagnato la dipartita del nostro Mario cessa e compare la figliuola, la secchioncella Edith, che russa sul letto attorniata dalla bozza di quel romanzo che pare la fabbrica di San Pietro cartacea.
“Signorina,” dice servile la serva e quella viziatella di Edith ovviamente le risponde male, come si confà a tutti gli adolescenti ribelli di genitori ricchi e di successo.
“Aho, neanche ‘na pennichella! Ehm… Sì Annie, che vorresti?”
Tutto il fastidio e l’ineducazione – come se il povero Mario non le avesse dato il meglio: le scuole, il precettore, l’insegnante di canto, l’apparecchio ai denti – scompaiono non appena la serva sottopagata Annie, che ogni giorno maledice quel contratto a tempo indeterminato presso quella cacacavoli della signorina Cushing, dice che c’è il manoscritto rivisto e corretto dal baronetto.
E una sua lettera. Sì, proprio una lettera scritta per Edith dall’inglesotto di cui sopra. Ma Edith non è scema, ha affinato tutte le tattiche di ogni ragazzina che non vuole farsi beccare e finge disinteresse fino alla chiusura della porta in ciliegio con maniglia in ottone levigato. Appena la serva, o governante, insomma quella a cui non hanno versato i contributi ma lei ancora non lo sa (e sennò come vi credete che Mario abbia fatto i soldi, eh?), esce dalla stanza, Edith salta dal letto inforcandosi gli occhialetti di Gandhi.
La lettera è bellissima, un surrogato di smancerie ottocentesche da romanzo, di accuse velate al povero Mario e di paroloni che a Buffalo nessuno comprende. Se l’è studiata bene il baronetto, lo sa che la sua preda è una ragazzina snob ed esterofila ancora in conflitto latente con cotanto padre.
Edith corre verso la pensioncina che chiudono un giorno sì e l’altro pure, a turni, quelli della buoncostume nei pari e quelli dell’ufficio di igiene nei dispari.
Ma gli Sharpe questo possono permettersi e infatti mi sa che per non pagare hanno approfittato proprio di uno di questi sequestri, visto il caos che c’è quando la bionda Cushing arriva.
Edith corre, corre ancora, fino a quando raggiunge la stanza che è stata di Thomas e ci trova le addette alle pulizie a rifare il letto. Ovviamente sono nere, ma per fortuna non sono state doppiate come Mami in Via col Vento.
“Sono partiti” dicono le colleghe di Annie. Edith non fa in tempo a simulare un attacco di panico che subito, nella penombra, anticipato da un patetico “Edith” compare un extracomunitario di nero vestito, che a quanto pare non è salito sul primo treno.
Probabilmente c’erano i cani con le guardie all’ingresso della stazione centrale e non se l’è sentita di rischiare.
“Lucille se n’è andata, lei era pulita. Io sono rimasto per non incappare in altri guai con la giustizia, ma anche perché non ce la faccio a stare senza di te. Ah, e Mario mi ha pagato per andarmene e per sbatterti in faccia quel sonoro due di picche. Sono stato bravo no, ho puntato tutto sui triliardi di pagine recentemente dattiloscritte con le quali vai sempre in giro. Ottima interpretazione, a uno così non capisco perché non gli facciano fare Bond. Senza di te morirei, ma con un contratto del genere camperei meglio.”
Edith ha ancora l’espressione impaurita di quella che ha appena perso l’occasione della sua vita, un figo da paura che non ha occhi che per te e che molto probabilmente ti renderà donna a breve. Ma per fortuna l’occasione è ancora lì, ghiotta e a portata di mano.
“Mai, non potrei mai dimenticarvi” – a insinuazione dello scaltrissimo baronetto la biondina risponde – “ricordati che qui nella terra di zio Tom non ho mai visto uomo!”.
E non l’ha neanche mai baciato, se non contiamo quella volta in cui a una festa – uscita già indenne dal gioco della bottiglia – salutandolo ha baciato il dottorino nelle vicinanze dell’angolo esterno della bocca. È dal quel momento che lui ha ritenuto di avere delle possibilità, ma questa è un’altra storia.
Ora, con Sir Thomas Sharpe è arrivato il momento, quello vero, del primo bacio di Edith. Come se nulla fosse, su un’aria che ricorda la versione karaoke di All by myself, avviene uno scambio molto equo e poco discreto di saliva.
Si infilano reciprocamente in bocca due metri di lingua, la lingua dell’amore.
Da questo momento in poi viene messa in scena e in pratica la love story del secolo che, complice il karma, all’alba ospita subito subito una tragedia: la morte di Mario Cushing. L’uccello del malaugurio è l’azzeccagarbugli di famiglia il quale, tedioso come solo nei peggiori quadretti raffiguranti la burocrazia polverosa e imperscrutabile, altezzoso come se intorno a lui avesse solo bifolchi dal cervello fino (chissà perché, poi), dice:
“Temo che dobbiate identificare il corpo, Edith. Non c’è altro modo.”
Ma va’? Dici davvero? Qui stai parlando con gente che scrive operette horror, vuoi che non sappiano come si procede in questi casi? Certo, siamo sempre a Buffalo. Ma tant’è.
Il momento è serio, siamo nella camera mortuaria, Edith è sconvolta e Tommasuccio suo l’ha accompagnata in questo triste passaggio della sua giovane vita. Ma non abbiamo ancora toccato il fondo.
“Aspettate!” si sente tuonare dal fondo dello spazio che sembra infinito del luogo. Alan McMichael, premuroso come vostra nonna e non desiderato come vostra suocera, fa l’ingresso nello stupore generale:
“Chi è questo, Fra’ Cazzo da Velletri?”
Lui ovviamente non si accorge dell’invisibilità che pare portarsi addosso e della scarsa considerazione che uscita in ognuno e in ogni dove. Sono arrivato appena l’ho saputo, vita mia, amore mio, Edith bella, non ti preoccupare, non devi vedere. Ma-chi-t’ha-chiesto-niente, pare pensare Edith, che non parla e simula uno sguardo spiritato che non le appartiene.
Nell’indifferenza generale Alan si propone come medico per l’autopsia ed è nella stessa indifferenza generale che gliela fanno fare, col piffero.
“Io ero il suo medico!” fa presente con tutta l’autorità che è nelle sue corde, quindi una quantità molto vicina al meno infinito.
“E io il suo legale!” tiè, becca dottorino. Che bel duello.
Ma Alan non si arrende e si gioca la tattica della diplomazia. Chiede all’avvocato come sia successo e così, nella prima scena in cui forse potremmo mettere in dubbio che la sua laurea sia da annoverare tra quelle ottenute con la raccolta punti della Mira Lanza, mette mano al cadavere e dagli sguardi si capisce che qualcosa non gli quadra.
Tutto però viene stoppato dalla figlia disperata del fu Mario in modalità preparazione terra per i ceci.
“Leva quelle manacce! Quello è mi’ padre! Come te permetti! Compie 60 anni la prossima settimana, teme di dimostrare la sua età, per questo si veste così elegante (anvedi Mario! Non ce n’eravamo accorti a dire il vero nda). Perché è così freddo? ”
Insomma, Edith sta rielaborando il lutto in un modo tutto suo, ma d’altronde, poverina, è circondata da avvoltoi incapaci. Lei, per non saper leggere né scrivere, si butta tra le braccia di Thomas Sharpe, eccitatissimo e eccitantissimo baronetto, che la rassicura. Ora c’è lui, niente più lagne e accolli. Giusto ogni tanto qualche piazza dello spaccio. I buffi sono tanti e i marchingegni ideati troppo avanzati per i contemporanei.
In camera mortuaria, dunque, succede tutto e niente ed è tanto meglio passare direttamente alla scena del funerale di Mario, dalle atmosfere genuinamente gothic. Non ce n’è uno che non abbia rispettato il lutto in nero all inclusive con gli ombrelli.
Il cielo piange, perché un grande ci ha lasciati. Mario, insegna agli angeli a menare le mani. Mario, insegna agli angeli a farsi prudere le mani ogni volta che qualcuno non gli sconfinfera. Mario, insegnagli che sta mano po’ esse fero e po’ esse piuma. A un certo punto sembra che le fronde degli alberi, all’unisono con le gocce di pioggia, sussurrino un “malimorta’…” celebrativo, ma è solo una mera illusione dei presenti riuniti, primo fra tutti Cesare della fraschetta che ha dichiarato: Già ci manca, era un allegro improvvisatore di stornelli a dispetto e un grande consumatore di romanella.
Mentre il defunto viene degnamente commemorato, un altro duello si affaccia all’orizzonte, quello tra il dottorino e il baronetto.
Il secondo saluta da lontano, il primo, memore di quanto bullizzava i compagni di Eton, gli lancia uno sguardo della serie: “Viecce! Te sto a aspetta’, cornuto!”
Ma ci risiamo, non è Sharpe che parla, sembrano ancora le fronde degli alberi che, imperterrite, omaggiano Mario…
Nelle prossime puntate: comincia il menage familiare in casa Sharpe…
N.d.A
Quattro mani, due teste, apparentemente due cervelli. Le Cicale ringraziano i Lettori e dedicano questo episodio a Mario Brega, il cui anniversario della dipartita ricorreva il 23 luglio scorso. Al prossimo giovedì, vostre
Claudia e Sara
Superba cosa hanno scritto anche stavolta le CHICale!
Il contrappasso igienico s’abbatte sul Brega come il Flit sulla fantomatica vecchia, col medesimo risultato mortifero. E CI HO PIACERE!
Sì, perchè, nonostante il buon Mario m’abbia fatto sbellicare (soprattutto nella valutazione delle antecedenze sferopodistiche della genìa Sharpe), il mio cuore “sparpetèa comm’ a ‘n ‘anguilla dint’ o fosso” (si dibatte ferocemente come un’anguilla di fosso) per il fighissimo Sir Sfiga.
Ho adorato le citazioni coltissime, le diapositive stupende (la saga Christone /Loki la adoro), i sottofondi musicali, che, ormai, dovrò inventare nuovi aggettivi per descrivere il gusto che ho nel leggere le vostre righe, la gaiezza che mi comunicate, l’allegria scanzonata e sincera che instillate in ogni riga.
Grazie! Viva le CHICale.
Grazie a te, Emiliana, di rallegrarci con i tuoi commenti puntuali, bellissimi, intelligenti. Siamo sempre molto ansiose cosa pensi dei nostri “lavori” e siamo felici che questi scritti ti facciano passare un buon quarto d’ora. O una mezz’ora. O un’ora, quando le Cicale prendono la tangente della logorrea scribacchina, come la nostra pedante Edith. Molte sorprese ci attendono ancora, e molti progetti abbiamo in cantiere! Un abbraccio grande le Cicale/Chicale. 🙂
Oddio, ho bisogno della terza parte! Dov’è la TERZA PARTE????????
Ciao Lulu!
Devo dedurre che hai apprezzato?! Guarda, lasciarla incompleta è una cosa che mi disturba un po’: il vero problema è trovare/selezionare le immagini! Prova a ripassare a fine maggio! (Intanto puoi consolarti con un’altra opera interpretata dal bel Tom e da me parodiata: The Night Manager, sempre qui sul blog, quella è completa!) A presto, spero! 😀
Buongiorno, arrivo solo ora, dopo aver trovato questo blog per caso smanettando alla ricerca di foto fo Crimson peak, a leggere le tue parodie e mi sono ammazzata dalle risate, ridevo da sola sul divano col marito che mi guardava perplesso. Hai un vero talento, per Crimson Peak hai messo su carta quello che veniva in mente anche a me man mano che scorreva la storia sullo schermo e l’ accostamento fra il padre Cushing e Mario Brega è semolicemente geniale. Mitica anche la parodia del night manager, dove hai colto l’anello debole centrale, il personaggio della svampitissima Jed. Io non ho visto purtroppo la versione tv, ho letto solo il libro che è bellissimo e si discosta un poco dalla storia dello sceneggiato, ma Jed è proprio la stessa. Comunque, magari non segui più il blog, e non leggi neanche più i commenti ma volevo davvero dirti brava e che, anche se ormai è passato un po’ di tempo, se riuscissi a scrivere l’ultimo capitolo di Crimson Peak, sarebbe fantastico. Grazie di aver realizzato queste parodie. Buon lavoro!
Ciao!
Grazie infinite! **
Non sai quanto piacere mi fa sapere che questo piccolo esperimento ti sia piaciuto! Trovare le immagini per fare la parodia è la parte in assoluto più tediosa, se non fosse per quello penso sfornerei la terza parte in un giorno. Grazie per le bellissime parole **! P.S. Su Crimson ho scritto ancora, anche se cose più introspettive: cerca “Shilyss” su fb (anche per le immagini di Sir Thomas Sharpe).
Il blog comunque è attivo e tra i buoni propositi del 2020 c’è anche quello di resuscitarlo! Riusciranno i nostri eroi??
GRAZIE INFINITE <3