Introduzione: di come la Cicala Sara ha inventato il suo stile nel vestire french misto a hippie chic e etno chic, mescolando, osservando, facendosi suggestionare da mode del presente e del passato, le idee, i desideri, e pure un po’ e parecchio da viaggi, incontri, letture, film. Perché lo stile che si ha non è mai casuale, non nasce dal nulla ed è piena espressione della propria personalità multipla e sedimentata, o di quello che vorremmo essere.
Oddio quanto siamo profonde oggi, torniamo in noi. Tornate in voi, tornate a noi, non vi fate condizionare e tuffatevi come su un piatto di lasagna in questa nuova cicalosa avventura a puntate. La prima riguarda, immancabilmente, il terribile periodo del liceo e dell’adolescenza.
Adolescenza, quella maledetta
Questa storia inizia tanti anni fa, con una nonna che rincorre sua nipote nel corridoio di casa e cerca di fare l’orlo a degli enormi pantaloni bianchi, taglia unica, a vita bassissima. Marca: Bench.
L’anziana donna, classe 1911, grida contro la sua progenie in un dialetto dell’entroterra appenninico che non so riportare, perché sono come i ragazzi di seconda generazione che capiscono la lingua del paese d’origine ma non la sanno parlare, e quindi ho paura di sbagliare e farmi prendere in giro da tutto il mio clan famigliare (anche se, a dire il vero, nessuno di loro mi legge veramente). Oggi, col senno di poi, possiamo dire che quell’eroina del Novecento aveva ragione. Penso che non abbia preso tanto a cuore neanche le due guerre mondiali che aveva passato, niente, niente poteva lacerarle il cuore quanto vedere una caduta di stile così palese della sua nipotina.
Diciamoci la verità ragazzi, diciamoci una verità tremendamente sciovinista. In Italia lo stile si impara in culla, come si impara ad arrotolare gli spaghetti. Le nonne e le mamme ti lanciano occhiate da cecchino in odor di vendette quando sbagli un abbinamento cromatico, spendono ore e ore e giorni e settimane e mesi a valutare gli outfit di tutta la famiglia in occasione delle cerimonie. Diamoci la verità, questo è un paese dove gente con i calzini sotto i sandali non ha ragione di esistere, dove la cucchiarella della nonna potrebbe scattare per molto meno.
Ma era il periodo della ribellione a tutti i costi, e lo stile latitava. Era l’adolescenza, che si mescolava alle incertezze del nuovo millennio che stava iniziando. Tutta questa confusione e questo pathos si riassumevano, per la piccola Sara, in quei pantaloni con i quali andava in giro a pulire i corridoi del liceo, quelli di casa e di tutte le strade che percorreva alla ricerca di amori impossibili e puerili ideali.
Per chi non se li ricorda, fortunato, i pantaloni della Bench erano un orrore plasticoso, indossato da B-Boy e Fly-girl. Questi ultimi, per chi non se li ricorda, essere baciato dal Signore, sono quelli che scrivono il loro tag (una sorta di nickname spesso anche bruttino che attualmente serve solo a far partire la ciavatta a quelli dei Retake) sui muri delle città. Meglio se nei sobborghi malfamati delle metropoli. Poi ascoltano musica hip-hop, ballano (o semplicemente ammirano a debita distanza) la breakdance.
Ebbene, la piccola Sara non è mai stata nulla di tutto ciò e tutto ciò non c’entra nulla con l’hippie chic e tutto il resto. Quello fu solo un periodo particolarmente sfortunato del processo che la portò alla scoperta di un suo personale stile in fatto di abiti, accessori e scarpe. Tortuoso, cari i miei lettori, e che ha origine ben prima di quell’ormai, nel lessico famigliare, proverbiale evento che ebbe la nonna come coprotagonista. Ma non vi ammorberò partendo dagli anni ottanta, non stavolta, anche se in realtà ci sono degli aneddoti di una piccolissima Cicala che battibeccava con la mamma nella scelta dei vestiti, anche aspramente.
Ma torniamo all’adolescenza, che è molto più divertente e si presta con molta più facilità all’autoironia e a una sorta di rito collettivo condiviso. I bambini sono carini e simpatici, gli adolescenti molto meno. E ricordare se stessi adolescenti ci fa sentire come avere un eterno taglio di capelli orrendo, tipo quelli a fungo scomposto che ti fanno le parrucchiere sceme che non capiscono come scalare in maniera umana. A chi non è mai capitato? (Vi prego, ditemi che vi è capitato altrimenti dopo questo post potreste mandarmi in analisi per manifesta sfigataggine).
Quindi partiamo, mentre cerco un buon analista. Chiederò ad una mia amica che ci è quasi finita perché ancora usava quell’orrendo tag per username, password. Stava arrivando a volerci firmare, per fortuna 50 euro l’ora l’hanno fermata.
Fortuna, come quella che ha allontanato me dal fantastico mondo della becera protesta del pantalone largo e mi ha fatto approdare ad uno stile che mi si confaceva molto di più e i semi del quale porto ancora con me. A scaglioni, sperimentando e costruendoci un mondo attorno sono diventata una zecca. Leggevo, mangiavo, vestivo e parlavo alternativo. Ero una zecca, essenza che se proprio vogliamo forzare fu preludio all’hippie chic. All’epoca si trattava solo, più o meno, a quella categoria adolescenziale nettamente avversa a quelle dei coatti e dei pariolini. I primi, con abiti aderenti e idee o di destra o apolitiche e i secondi, ricchi, di destra e con la polo. Per le ragazze, le prime abiti aderenti e tute, le seconde eleganti e pseudo ricercate.
Nel nostro gruppo, che portava probabilmente il nome più infame di tutti, cadevano dentro rocchettari, punk, sinistroidi. C’era confusione, e più spesso venivamo definiti come “alternativi”. Alternativi nella musica, con i nostri poeti e tutte le sfaccettature del rock, alternativi perché stavamo lottando contro il sistema (ma mica quello mondiale, noi si lottava come sempre fanno tutti gli adolescenti). Io figuravo tra i sinistroidi, anche se con i miei soliti modi soft e diplomatici. Letture impegnate, niente Mc Donald’s, abiti larghissimi – meglio se logori – Kefia, rasta, tanti braccialetti di tutte le risme, piercing.
Il mio stile personale, embrione di hippie chic o etno chic che dir si voglia
Io di logoro avevo solo il fondo delle brache, prediligevo monili orientali e mi truccavo soprattutto con colori molto scuri sugli occhi. Questa fu sostanzialmente la mia grande trasformazione, questi furono gli elementi che mi contraddistinguevano. Ora, non credete che sia stato facile andare in giro conciati così. Sì, è vero, eravamo un bel gruppo, non ero sola. Molti ci ammiravano per il coraggio e la personalità che mostravamo, altri ci deridevano per l’aspetto trasandato, la presenza di abbinamenti azzardati, la non adesione ai canoni della moda del momento.
Ora qui vi sembrerà una lagna relativa a traumi mai superati, ma ricordatevi un po’ che voleva dire essere osservati solamente per un nanosecondo da qualcuno a 16 anni. Ricordatevi che cosa fosse ricevere un commento, una battuta. Era come una calamità naturale in quel di New York all’ora di punta. Quasi quanto perdere la valigia accuratamente preparata per un lungo viaggio. Come il divorzio da – quello che credevate – l’amore della vostra vita. Ma che dico, come la morte o la sparizione misteriosa ed eterna della persona più importante della vostra vita. Come cercare Maria pe’ Roma e l’ago nel pagliaio. Ah, no, forse sto andando fuori tema.
Io comunque la manifestazione di quelle tragedie adolescenziali me la ricordo bene, ma non mi fregava più di tanto né allora né me ne frega adesso. Volevo andare in giro vestita come meglio credevo, e così fu.
La via Condotti de noantri: Via Sannio
La storia dell’adolescenza è innanzitutto una storia di povertà. Le esigenze aumentano, ma la cassa di ogni maldestro e brufoloso esserino è alimentata dalle mancette legate al genetliaco e a Natale, più quelle misere quotidiane dei genitori “questi sono per la merenda”, “questi sono per l’autobus”.
Con questi presupposti ai tempi, a me compresa, restavano ben pochi i soldi da spendere per esigenze di stile. Ormai lo shopping con i genitori, poi, era difficile da andare a fare. Mai farsi vedere in giro per troppo tempo con loro, era questa una delle regole d’oro del libro nero dell’adolescenza. Una sorta di guerriero della luce o quell’altro libro lì, quello delle risposte, con la maggior parte delle pagine decorate da male parole e da rifiuti categorici. Fatti una domanda e datti una risposta, che è quasi sempre o vaffa o no.
Lo shopping con i genitori era doveroso quando non si avevamo più neanche un paio di mutande decenti, ma si sa, da quando è stato creato l’uomo e subito dopo lo shopping, è anche un momento per approfittare e farsi comprare qualcosa. Ma, e qui sto di nuovo consultando quel libricino che a onor del vero conservo e consulto nei periodi più neri, mai cedere troppo. L’onore è tutto. Il disonore è un suicidio collettivo delle funzioni vitali.
Quindi mettiamoci i pochi soldi, mettiamoci la volontà di sfruttare solo in casi estremi il portafoglio di quei poverelli, aggiungiamo sempre tra parentesi tonda la voglia di apparire quel poco trasandati, chiusa parentesi, moltiplichiamo per il fatto che vivi a Roma (almeno in questa triste storia di stile in questione) e la soluzione e semplice. Senza che ti metti a copiare dal vicino di banco o peggio ancora che cerchi una vesta da aquila che non hai mai avuto e provi a sbirciare nell’altra fila.
Devi andare a Via Sannio.
Il mercatino dell’usato per antonomasia, poi il mercatino della roba rubata, poi il mercatino degli alternativi a buon mercato. Jeans di tutti i modelli, pantaloni militari, borse colorate di stoffa, accessori abbinati, magliette dalle mille e più sfumature.
Mariniamo la scuola (che si dice “Facciamo sega”) e andiamo a via Sannio. C’è ponte e andiamo a via Sannio. L’assemblea è noiosa anche se noi facciamo i finto impegnati, e andiamo a Via Sannio. E visto che veniamo dalla periferia e comunque dobbiamo passare a Termini, facciamo un salto dallo Zoppo a Via Giolitti (via Sannio è ancora lì, nei secoli dei secoli, lo Zoppo si è trasferito). Altro luogo di pellegrinaggio degli adolescenti alternativi, nel quale gli stessi potevano rifornirsi di spillette, bracciali con possenti borchie, poster dei divi, magliette dei divi. Insomma, un altro tempio degli alternativi negli anni zero. Ma attenzione, lì c’erano le prime avvisaglie di hippie chic, ben nascoste, da coltivare.
Mai con
Abiti Aderenti o troppo scollati
La legge imponeva il largo. Osare con le scollature era da femminucce che cercano solo una cosa, era per farsi vedere e scimmiottare dive che non approvavamo. Noi non ci dovevamo far vedere, ma ci volevamo far amare e desiderare per quello che eravamo dentro. Ok, nulla da eccepire, quale nobiltà di ideali mi/ci animava! Oggi beh, il gusto è cambiato e so che deve vestire per piacermi e con quello che mi piace veramente, ma è un’altra storia, non fatemi di nuovo dilungare, che già sto facendo abbastanza.
Eppure ora penso proprio che tutta la storia dell’apparire ciò c’entrasse poco o nulla, ma che fosse solo una fottuta timidezza e insicurezza quella che mi/ci faceva nascondere dietro a sacchi estremi.
Passa un uomo, tutte nei sacchi! Tutte in trincea! Sulla difensiva!
Passa la più figa della scuola, lasciamola passare e rintaniamoci in una caverna.
Beh insomma, non era proprio così, ma è per farvi capire.
Scarpe col tacco
più o meno per lo stesso motivo di cui sopra. A noi non interessava apparire o farci belle, ci interessava essere. Non spenderò altre parole su questo. Credo che anche qui ci fosse un motivo più che reale: la scomodità. Il fatto di utilizzare sempre i mezzi pubblici, di muoversi molto, di dover pogare ai concerti. Non c’era davvero lo spazio per il tacco, almeno nella mia scala di valori. Possedevo solo uno stivale nero scamosciato, punta squadrata, con un mezzo tacchetto, appositamente acquistato per le grandi occasioni: le feste dei 18 anni. Stop.
Mai senza
Sciarpetta al collo
Si sa, la sciarpetta fa intellettuale, quindi rientrava benissimo nel personaggio (e questa a volete diciamolo, era quasi hippie chic). Come se aiutasse a meglio pensare e a parlare, mentre con quel gesto che compare in tutti i film del mondo si pone un lembo al di là della spalla. Si trattava soprattutto di foulard colorati, anche quelli acquistati a buon mercato. IL mercato, quasi sempre.
Jeans a vita bassa
Verso la fine degli anni novanta tornarono a gran voce sul piccolo e grande schermo, per le strade e nei negozi, i pantaloni a vita bassa. I rimasugli degli armadi, con jeans che oltrepassavano coraggiosamente l’ombelico o lo sfioravano, lasciandolo appena intravedere, ci facevano inorridire. Portavo dei pantaloni, quasi sempre jeans, ovvio, rigorosamente calati e sempre a zampa. Mi coprivano le scarpe, erano un po’ più lunghi del dovuto.
Matita nera a incorniciare l’occhio
All’epoca non ero una grande esperta di make-up e nel mio beauty case figuravano due soli prodotti: la matita nera e un lucidalabbra o rosa tenue o trasparente. Il punto forte rimanevano però gli occhi, contornati da una matita extra noir che il più delle volte colava, a volte simulando un effetto sfumato altre volte un effetto tossica disperata. Anche questo, poco french e poco hippie chic.
L’adolescenza è difficile, non sto qui a ripetermi e ad aprire ferite, come pure la ricerca di uno stile. Ma non credete che dopo i giorni e i patemi siano più fausti. La prima puntata e le prime peripezie, per ora, finiscono qui. Tutto insieme sarebbe veramente troppo, da analisi.
Rimanete connessi,
vvb,
Sara
Nella prossima puntata: di come Sara continuò a sperimentare negli anni universitari e subito dopo. Hippie chic e French style: come mescolarli?
Ah, i ruggenti ’90. Ah, l’orrore! (Cit. Roper by Cicala Claudia)
Erano gli anni delle Superga e le “All star” (poi presero a chiamarle Converse),
delle felpine dai colori pastello, delle cartelle NajOleari, accessori Camomilla…
Ma non per me!
Gli anni del Liceo Classico furono anni di protesta contro la Vita ed il Sistema (quale sistema, poi? Boh!) caratterizzati da un look total black da ottobre a maggio ed esplosioni di colore nei mesi estivi! Il concetto, però, era sempre lo stesso: “Passa un uomo! A me il sacco (nero, per giunta. Una sorta di autocensura, ahimè!) ” Lo stile era lontano come le indie per Colombo, nonostante madri e nonne che, recando esempi di studi sociologici ed evolutivi che manco Darwin avrebbe potuto citare, manifestavano l’amore per gli outfit classical british delle mie cugine perfettine, tutte London look collegiale fatto di gonnelline a pieghe, golfini, twin set, trench, borsine cool (che oggi mi piace molto, ma allora, a 18 anni, trovavo irresistibilmente da “vecchigna assignorata”).
Io ero un’entità informe dai contorni indefiniti, che litigava con le proprie ascendenti donne per il taglio (e soprattutto il COLORE) dei capelli, i jeans, le felpe, le scarpe, la obbligata transizione verso un quid che contenesse i documenti (le tasche sformate di giacche e giubbini erano una tristezza).
Cicala sara, hai attraversato anche tu una fase di sperticato aMMore per gli zainetti di ogni foggia possibile?
Tuttavia, ammetto che il seme del cambiamento fu gettato in me quando mia madre mi portò in un outlet multimarca di scarpe da donna, ove le sneacker erano sputate via come la foglia di tabacco “ciancicata” dal cowboy grezzone.
Rimasi folgorata!
Mia madre buttò lì un quasi casuale “Queste meraviglie non si addicono a quei cosi che ti ostini a chiamare pantaloni…” Fu l’inizio dell’evoluzione!
Poi, se ricordi, alla fine dei 90 comiciò il revival degli anni ’70, con le sue geometrie, il suo rigore, i suoi pantaloni boot, gli zatteroni, il trucco “con molto bistro”… E divenni davvero io!
Questo articolo mi è piaciuto moltissimo: adoro il tuo stile fluido e godibilissimo ed il modo scanzonato in cui dipingi te stessa.
W la Cicala Sara! W noi!
Grazie Emiliana, è sempre un momento bellissimo quello in cui vediamo il tuo commento apparire 🙂
Per quanto riguarda gli zainetti ne avevo solo due, logori quasi quanto il fondo delle brache: un Eastpack grande e un Eastpack mini. Minimal, diciamo… Però la verità è che avevo già una smodata passione per le borse a livelli maniacali quasi quanto oggi. Ma di questo e altro ancora parleremo nella prossima puntata… (sigla e titoli di coda) -> e per fortuna che le puntate precedenti non avete bisogno di scaricarvele illegalmente -> per fortuna è stato vero soprattutto per la parodia