Crimson Peak, o le sfigate vicende di Thomas Sharpe. Sir Thomas Sharpe, precisiamo
Attenzione: ebbene sì, l’abbiamo fatto di nuovo. Se volete sapere cosa ne pensano le Cicale di questo film gotico atteso come nemmeno i Re Magi la stella cometa, andate al link. Se volete leggere qualcosa di serio e drammatico su Crimson Peak sempre, andata di qua. Se volete una parodia come solo le Cicale sanno fare, leggete, se v’aregge. La parodia consta di quattro capitoli che usciranno ogni giovedì (speriamo: se non la vedete, andate sulla pagina fb e chiedete se siamo rimaste sepolte sotto una pila di scartoffie).
Cap.1 una bambina proprio fortunella
Neve. Una caterva di neve su cui spicca lei, la bionda protagonista graffiata, consunta e spettinata e ansimante peggio di Darth Vader quando ha l’asma.
Fissa te, lettore. Proprio te. Ti fissa e dice “i fantasmi esistono. Questo lo so.” E, con gli occhioni luccicosi e lacrimosi, si fissa una manina imbrattata di sangue, mostrandoci la sua bella camicia da notte anti assalti notturni, che la copre dal sensualissimo polso al collo.
Ma come avrà fatto la nostra intrepida protagonista a comprendere una siffatta verità? Cosa l’avrà spinta a una tale consapevolezza? Facciamo un salto indietro.
Siccome l’allegria regna sovrana, subito dopo Edith piangente abbiamo un funerale. Il funerale dell’adorabile mammina della nostra protagonista, strappata anzitempo al mondo dei vivi dal colera, in una triste giornata invernale. Oh, Lettore, questo è un film gotico. Un gothic romance per l’esattezza, quindi tutto è tristo, buio e decadente.
La prima volta che Edith ha visto un fantasma, dunque, aveva dieci anni e mammina se l’era portata via il colera, ed era proprio di quest’ultima che la nostra fortunella vede l’ectoplasma. Il commiato, del resto, non c’era stato, perché il babbo, per non saper né leggere né scrivere, aveva ben pensato di chiuderla immediatamente nella cassa. Che dettagli morbosi eh? Rabbrividite? La piccola Edith, bionda e boccoluta, fissa il feretro, lamentando l’impossibilità di un ultimo sguardo, un ultimo abbraccio, una parola di commiato. E poveraccia. E che tristezza. “Almeno,” dice la voce fuori campo della nostra eroina, “fino alla notte in cui lei tornò.”
E come torna mammina dall’Aldilà? Edith singhiozza infelice nella sua stanza invasa dalla luce verde che fa tanto film dell’orrore italico anni Settanta e Ottanta, mentre fuori, ovviamente, scende giù il Diluvio Universale con Noè e bestie annesse, ed il pendolo ticchetta sinistro. Ma ecco che, improvvisamente, l’orologio si ferma. Edith trattiene il respiro, la porta cigola sinistra – te pareva, e la bimba si rannicchia nel letto. Ed ecco che, dal corridoio invaso da luci verdastre, spunta il fantasma della mamma di Edith. Scopo dell’evanescente creatura è avvertire la figlioletta boccoluta del pericolo che si nasconde nel suo futuro, solo che lo fa nel modo sbagliato.
Appare, dunque, come uno scheletro di nero vestito, che sfina, d’accordo, ma fa quasi collassare dalla paura la bimbetta. E ci crediamo, povera stella. Anziché comparire come Patrick Swayze in Ghost, la mamma di Edith ha scelto la modalità incubo dell’oltretomba per accomiatarsi dalla figlioletta adorata.
Quella, ovviamente, collassa di paura quando la manina obbrobriosamente adunca e lunga della genitrice le si posa con delicatezza sulla spalla per portarle il messaggio che viene fresco fresco dal Regno dei Morti.
Vabbè, direte voi, ma il messaggio quale sarà? Per una legge non scritta dell’Aldilà secondo cui il messaggio riportato di qua deve essere criptico, sennò Edith è squalificata, l’inquietante spettro avanza e, con voce gracchiante, pronuncia il suo vaticinio.
“Bambina mia, quando il momento verrà, attenta a Crimson Peak” urla mentre la ragazzina se la fa letteralmente sotto e lancia uno strillo isterico che sveglia mezza città.
Ovviamente, la voce fuori campo di Edith adulta ci tranquillizza del fatto che lei, ovviamente, non ha capito una fava del messaggio invitatole se non quando ormai era evidente e troppo tardi, allietandoci con immagini di falene danzanti di fronte alla luce che le segherà. Bella metafora, però.
Buffalo, 1899. Edith Cushing saltella allegramente per le strade dell’operosa cittadina americana. Non è solo la gioia a spingerla a zampettare coi suoi stivaletti di vitella, ma il fango che ricopre le strade dato che, sebbene siamo agli albori del XX secolo, ancora a nessuno è venuta questa fantastica idea di asfaltare. La donzella, ad ogni modo, s’infila nell’unica costruzione che non sembri una capanna, sale le scale con una certa fretta, ed incrocia un uomo che la riconosce. “Edith!” la apostrofa.
Lei, che sta proprio pensando agli stracavoli suoi fa una rampa e mezza di scale prima di metabolizzare che ha incrociato qualcuno che conosce, ma poi, alla fine, qualcosa le sovviene in mente. “Uh, Alan! Non ti avevo proprio visto! Quando sei tornato?” domanda più per cortesia che per reale interesse.
“Ehm, due settimane fa,” dice Alan, “Genoveffa non te l’aveva detto?” chiede apprensivo.
“No, boh, che ne so,” borbotta Edith sfangandola. Perché Alan, ve lo diciamo subito, appartiene alla categoria ben nota dell’accollo. Se Edith avesse what’s up o Facebook, per dire, il dottorino sarebbe una di quelle persone inquietanti che controllano le spunte blu dei messaggi e quando ti incontrano fanno gelare la conversazione dicendoti “ma com’è che non mi hai risposto, se eri connessa?”
Alan tenta di rendersi interessante dicendole che ha aperto lì un nuovo studio, che quella racchia della sorella (che non si chiama realmente Genoveffa ma qualcosa come Junice e a noi non piaceva), insospettabilmente a Londra ha rimorchiato, evento tanto raro che i panda si sono riprodotti a sfregio.
Ma alla nostra eroina nulla frega di tutto ciò: è una giornata importante, ma che diciamo importante, importantissima: finalmente, presenterà ad un editore – amico di papà, il suo macabro manoscritto. Eh sì, lettore caro, perché questa donzella tanto mite scrive storie truculente e terribili, piene di sangue, morti ammazzate eccetera eccetera. Ma scevre d’amore. E lei, che ha le ansie e deve correggere le bozze come neanche il Manzoni con l’edizione del 1827 (Ventisettana, appunto andate direttamente lì), tenta di divincolarsi.
“Sì, vabbè chissenefrega, io ho un appuntamento con l’amico di papi che mi legge il manoscritto,” mette le mani avanti.
“Quando?” domanda l’accollo.
“Alle dieci,” soffia Edith tra i denti.
“Ma sono le nove,” replica Alan, fastidioso come una zanzara in agosto.
“Ma c’ho le ansie!” risponde Edith, “voglio andare via prima!”
Ma ecco che, sulle scale più trafficate di Buffalo, fanno la sua comparsa Genoveffa e la madre seguite da uno stuolo di comparse inutili. La Milf decanta le bellezze del partito puntato dalla figlia.
“È un baronetto! L’ha incontrata al British Museum,” boccheggia al settimo cielo, “Ed è bellissimo! Ed è vero! Non come quella volta che ha detto di aver incontrato un francese figo di nome Andé Grandier! E pensate, ha attraversato l’Oceano con la sorella solo per rivedere Genoveffa!” si vanta tronfia.
Genoveffa, che ha acceso un cero alla Madonna del Guadalupe per trovarsi uno straccio di fidanzato e che non è ben certa neanche lei che il suo spasimante sia reale e non un’opera di fantasia partorita da un giapponese, tenta di non contrariarsi il fato beffardo. “Ma no, mamma, è qui per lavoro,” soffia imbarazzata. Però secondo noi un po’ ci marcia pure, eh.
“Sembra che sia un baronetto!” esclama una delle comparse inutili mentre Edith sperimenta il disagio di essere invisibile peggio di un ninja.
Però Edith, se sceglievi un vestito dell’esatto colore della parete, non ti mimetizzavi.
“E che cos’è un baronetto?” domanda una tipa a caso dimostrando di essere ignorante come homo herectus con la clava di fronte ad un sonetto del Petrarca.
“Ma che ne so, una specie di riccone nobile sailcapperocosachissenefregatantoèfigo” liquida la faccenda la Milf.
Ci pensa Edith a spiegarlo, che oltre a scrivere libri pieni di fantasmi è una persona conscia del mondo e politicamente impegnata.
“No, cioè, questa cosa dei baronetti non è per niente egualitaria, no capito, non va bene, i baronetti sono persone che hanno dei diritti acquisiti per nascita e che sfruttano i proletari io vorrei creare un collettivo che mira alla redistribuzione del reddito dei baronetti, altrimenti detti parassiti col titolo, zecche no, quelle siamo noi.”
“Questo parassita è terribilmente affascinante,” precisa giustamente la signora McMichael, molto tentata di scaraventare Edith giù dalle scale più affollate di Buffalo, “ed è anche un magnifico ballerino. E sa fare pure gli origami. E sa imitare il verso dell’upupa. Ma di certo non interessa ad Edith, la nostra giovanissima Jane Austen. Lei morì illibata, giusto?”
“Mamma, ti prego,” si impietosisce Alan.
“No, Alan, non fa niente. Tieniti per te questa debole difesuccia. In verità, brutta strega, io preferirei essere Mary Shelley. Morì vedova. Tiè.”
Dopo questa uscita, grazie a cui capiamo perché la nostra protagonista sia simpatica quanto lo spigolo di un comodino ed altrettanto amata, vediamo la nostra correggere tutte le settecentoquarantasette pagine del suo terrificante libro dell’orrore, che ribadiamo, al suo interno non contiene alcuna patetica storia d’amore.
All’editore, però, questa cosa non va tanto bene. “Ma potevi far innamorare il vampiro succhiasangue con la cacciatrice nipote di Van Helsing, proprio nel momento in cui strappavano gli arti al Lupo Mannaro…” dice sistemandosi i baffetti. E certo, Lettori. Lui voleva fare i soldi.
Da questo incontro, la nostra giovane autrice esce con una unica certezza, segno evidente che non ha capito un’acca di quanto spiegatole: la sua grafia è troppo femminile. Quindi va in ufficio da papino per ribattere tutta la sua preziosa opera letteraria in macchina.
Non prima però di essersi lamentata a cospetto del padre dell’editore, reo di volere questa storia d’amore e, come Edith non fa che ripetere, di trovare antipatica la grafia femminile. Il padre liquida il tutto facendo presente alla pargola che il valutatore è un uomo all’antica, pensando in qualche modo di far azzittire Edith, testarda come un mulo e loquace e lamentevole come uno di quegli uccellini che ti svegliano la mattina, di domenica o durante le vacanze.
Ma, cuore di padre, il signor Cushing ha un regalo per lei. Si tratta di una penna, che il buon vecchio introduce con un “Speravo che potesse essere un dono celebrativo”. Ah, anche lui era convinto che quella storiella di fantasmi senza un minimo di ammore potesse interessare qualcuno. Ne era proprio convinto, più della figlia. La quale, lo ringrazia ma gli sbatte in faccia il fatto che vuole battere tutto a macchina. Oh, quando uno si fissa si fissa. È per lei il problema sta tutto nella grafia indigesta all’editore.
“Io conosco il valore degli strumenti,” borbotta. Si riferiva alla zappa e alla vanga, in verità, ma la penna più o meno è la stessa cosa.
Il padre ci rimane male, anzi, sembra proprio prenderla per matta. “Ma guarda che figlia m’è capitata!” sembra pensare tra sé e sé, tra un boccone e l’altro. Mentre mangia osserva la penna, che deve essergli costata un occhio della testa e questa manco vuole adoperarla. Insieme ai suoi occhi anche l’inquadratura di avvicina pericolosamente a quell’attrezzo che pare mai verrà utilizzato. Ingrati figli dei ricchi che si sono fatti da soli. Mah.
Capitolo 2, l’ingresso di Thomas Sharpe, il baronetto poveraccio
Edith dunque, si accinge a ribattere a macchina tutta la sua opera omnia quando la porta si spalanca e fa la sua comparsa un uomo alto, bello e di nerovestito. Oh, com’è figo e tenebroso!
“Mi scusi, signorina, avrei un appuntamento col signor Mario Cushing,” dice porgendo un biglietto da visita alla biondina miope.
“Thomas Sharpe, baronetto ed inventore figo,” recita lo stesso.
Lei già lo guarda come se non avesse mai visto uomo e allo stesso tempo si prende una confidenza eccessiva. Da figlia del capo. Gioca sul fatto che a suo padre non piacciano né i ritardatari né quelli che arrivano troppo presto, come il nostro bel Lord, e lui risponde impicciandosi a sua volta. Sono proprio fatti l’uno per l’altra.
“Perdonatemi, non volevo curiosare ma… questa è un’opera di fantasia?” e menomale che non volevi curiosare. Ti sei messo proprio a leggerle, quelle scartoffie di quella carta rumorosa e frusciante. Non pago, leggi tre righe in croce e decidi che la biondina ha stoffa. Mah.
“Sì” risponde lei mentre fa per andarsene, ma poi tutto d’un tratto smette di tirarsela, felice che finalmente qualcuno si interessi ai suoi scritti. Sì, diciamo noi, secondo te di che altro si sarebbe potuto trattare? Ed ecco che l’uomo ha avvistato la preda, inizia a provarci, come nei migliori classici d’oltreoceano. Sì, perché a colpo d’occhio, così, finge di trovarsi davanti alla Divina Commedia. Solo uno che ci prova potrebbe. O uno con i superpoteri. O Loki.
“Davvero?” è figa? Cioè tu che sei già uno strafigo stai dicendo che il mio romanzuccio è strafigo. Che figo. E lei da saccentella figlia di un costruttore che s’è fatto da solo, diventa un’adolescente alla prima cotta. Ma proprio estemporaneamente, come se nulla fosse.
“Di certo ha catturato la mia attenzione” continua lui, credendosi il talent scout dei premi nobel per la letteratura.
“È mia, l’ho scritta io” risponde la fanciulla, ritrovando per un secondo un briciolo di dignità che poi sparisce subito, neanche le briciole di quel furbacchione di Pollicino.
E qui il film potrebbe finire, visto che il Baronetto Sharpe la guarda, parla di fantasmi, dice che gli piacciono, le si avvicina. Bye bye gente, i fantasmi non vanno presi sul serio, chiudete tutto… e invece no. Entra spavaldo e coatto lui: Mario.
“Aho’, che hai conosciuto mia figlia?” domanda subito il Cushing dopo le cortesi frasi di rito.
“Ehm, no,” risponde il baronetto con la faccia di chi ha messo le mani nella marmellata.
Il baronetto spiega di avere una miniera e di avere un’idea, sotto forma di agevole meccano lego. Gli mancano, com’è ovvio, i sesterzi, ed è venuto fin nella spersa Buffalo allo scopo di racimolarli.
Ora, se Thomas Sharpe aveva una, dico una possibilità di ottenere se non l’appoggio economico almeno il rispetto di Mario B. Cushing, onorato costruttore di Buffalo, lo perde ignominiosamente nell’esatto momento in cui Edith, fischiettando, entra nella sala delle riunioni.
“Guarda ‘ste mano”, dice, evitando di coniugare nel corretto modo la frase e mostrando le sue estremità callose. “Sta mano po’ esse fero, e po’ esse piuma. So’ le mano de uno che lavora. Le tue invece, me parono quelle de ‘na regazzina,” dice scuotendo la testa meditabondo.
Ma quella tonta della figlia non poteva prendersi un bel taglialegna vigoroso e barbuto di nome Jimmy, anziché fissare inebetita questo bevitore di the fighetto?
Il Cushing esplode in una invettiva contro Thomas in ciociario stretto, il cui senso è che non gli piace. Il baronetto, tuttavia, prima incassa malissimo, rimanendoci davvero male, povero pucci, poi improvvisamente si anima e replica al costruttore.
“Io sono solo un poveraccio con un nome, della terra marcia e un sacco di debiti,” dice, “e se sono nato Baronetto, mica è colpa mia. Sapessi che branco di pazzi ho come parenti!”
Il padre intigne, e quando la figlioletta cerca di difendere in qualche modo l’idea strampalata di Thomas, quell’accrocco che pare geniale solo perché lui è fascinoso più di qualunque uomo sia mai apparso nei pressi di Mario B. Cushing e compagnia bella, cerca di tagliare corto: “Non era la sua proposta amore mio, era lui… c’è qualcosa in quell’uomo che non mi piace. Cosa? Non lo so, e a me non piace non sapere. Non puzza di sudore maschio, ecco, forse è quello.”
Cosa vuoi di più. Padre laconico, pratico e della serie “Mi fijia ce deve ave’ er mejo. Altroché sto morto de fame in declino come la sterlina del dopo Brexit”. Eh insomma, se lo avesse detto a quel britannico di Sharpe, probabilmente avrebbe capito e se ne darebbe andato.
“Ma papino,” dice Edith, “non l’hai visto? Tenebroso, figo e sognatore! E proletario dentro. Ha abiti ben fatti, per carità, ma di vent’anni fa.” Ora, per farvi capire cosa intenda la nostra bionda aspirante scrittrice quando dice che i vestiti degli Sharpe sono di qualità ma vecchi – non vintage, badate bene, ma vecchi, immaginatevi che questa coppia per nulla ambigua vi si presenti conciata così (sì, Lucille ancora non è apparsa ma chissenefrega: il discorso vale anche per lei).
Mentre la pulzella continua a parlare imperterrita e indefessa del baronetto, dei suoi outfit e di quanto fosse un sognatore (lo ricordiamo, questa poverina è cresciuta in un mondo dove la pratica, il sudore e il lavoro sono i pilastri assoluti in una scala di valori in cui se anche solo provi a fermarti un attimo a pensare ti si butta al fiume – questa è Spartaaaaaaaa!) il padre la riporta alla cruda realtà.
Gli nomina lui. Uno dei nostri personaggi preferiti. Lo spasimante ideale di Mario, colui al quale consegnerebbe la figlia in quattro e quattr’otto. Uno che si è appena fatto la macchina nuova e aperto lo studio medico in un posto dove, amiamo continuare a fare esempi per farvi capire, medico e veterinario sono utili allo stesso modo e intercambiabili. Lui: il giovane McMichael.
“Questo te viene a prende co’ la maghina (nuova), quell’altro l’hai detto te, c’ha le scarpe fatte a mano e logore. Ah, i ggiovani…”
E la macchina.
E lo studio.
E c’ha un debole – non se n’è accorto nessuno, ma proprio nessuno, non lo riesce a nascondere proprio per niente – per Edith.
Ma la sua sorte è tutta nell’ingresso che fa. Se quando compare Tom si accendono tutte le luci attorno a Edith, nei suoi, nelle sue labbra, sulle gote (sì, non sappiamo come, ma ci pare carino dirlo). Si accende tutto, come a Secondigliano a Capodanno a mezzanotte, e considerate che siamo in un film dalle atmosfere così gothic che il valore di quest’accensione è davvero fantasmagorico. Quando entra il baronetto Sharpe a noi viene voglia di lanciare urletti, ma non lo facciamo per non imitare Edith, che alla faccia da urletto. Quando entra il dottorino, invece, l’unico contento è Mario. Questo dovrebbe bastare per comprendere l’entità della cosa.
Il basso profilo del dottorino e il fatto che sia del tutto ridotto a mero soprammobile per Edith è confermato dal fatto che lui si è impomatato alla Tony Manero, ha la macchina nuova messa a lucido, entra pimpante manco fosse il ballo del college e… esce portando al ballo il padre della ragazza. Mentre se ne vanno scherzano tra loro, troppo feeling tra padre e spasimante. Grazie Edith, lo stai facendo bene (il due di picche).
Ah, e mentre se ne vanno si vede pure il bolide tirato a lucido per l’occasione e che avrà messo in tasca a quello dell’autolavaggio pure una bella mancia, ce lo sentiamo. Ma siccome McMichael è sfigato in amore, succede la classica cosa che capita quando noi comuni mortali capita quando laviamo la macchina, ma che al tenebroso Sir Sharpe, se non fosse che gli mancano pure gli occhi per piangere da quanto è povero, non sarebbe comunque capitato. Piove.
I due uomini si convincono che Edith non sia voluta venire per una forma di protesta sociale nei confronti del capitalismo imperante e per difendere i diritti delfini maculati delle Antille: lei mica bada a frivolezze tipo i balli, eh.
Frattanto quella secchiona di Edith si butta sul letto pieno di agili tomi accompagnati da un taccuino vetusto, ma non fa in tempo ad approfondire le sue ricerche e i suoi dettagliatissimi studi che arriva lo spettro. E che volete farci, cari, è pur sempre un horror.
Ma noi vi risparmiamo la parte paurosa, in una sorta di parental control che vi distrae focalizzando le attenzioni di tutti su quel figaccione di Sharpe il quale, nel momento del bisogno, arriva. E questo è davvero un momento del bisogno. Però, a ben pensarci, lo spettro è essenziale, quindi ve lo beccate comunque. Statece. Scherzone.
Siccome quel figaccione nerovestito di Sharpe ha palesemente conquistato il cuore di pietra della beffarda Edith, lei, disinteressatissima, legge gossip sulla famiglia del misterioso lord. Dato che Gente e Diva e donna ancora non c’erano, deve ripiegare su una vetusta enciclopedia. In essa viene descritto brevemente che il bel tenebroso è originario di uno di quei luoghi dell’extracomunitario Cumberland realmente esistente, che trasuda freddo boia solo a vederlo in foto.
Ma lei, Lettori cari, è troppo presa. Disegna sul libro cuoricini e vignette con su scritto Edith e Thomas amore per sempre, incrocia i loro nomi per vedere la percentuale di compatibilità come insegnato sul Cioè, sceglie i nomi dei tre pargoli che avranno: ad interrompere tanta smielata dolcezza per fortuna ci pensa il fantasma della mamma di Edith.
La morte non l’ha fatta bella. Anzi.
Palesandosi come un sinistro scheletro sciancato male, di nerovestito e con un ghigno inquietante, mette in guardia la figlioletta adorata. Siccome però è una burlona, sotto sotto, e volendo evitare eventuali squalifiche alla sua Edith, si guarda bene, una volta di più di dal dire le cose come stanno.
Eccerto, lettore. E mica è spoiler. Thomas Sharpe è un figo spaziale, e ti ci mettesti pure tu a fare i cuori sul libro con le vostre iniziali ma c’è quell’insignificante dettaglio della Freccia Rossa che lo perseguita. Grossa, luminosa come un’insegna kitsch Anni Ottanta che vuole dire “Attenzione al Figaccione. Possibile Villain.” Del resto, Sharpe assomiglia vagamente a quel figo di Loki, che ci volete fare.
Ma Edith, che indossa gli occhiali rosa dell’Amore e, soprattutto, quelli per correggere la miopia, la freccia non la vede, o forse è pure daltonica, che ne sappiamo. Sta di fatto che non capisce l’avvertimento criptico del fantasma. “Attenta a Crimson Peak!” grida.
“Eh? Che è? Non devo vedere Twin Peaks?” boccheggia la nostra eroina in pigiama.
Il fantasma rotea gli occhi. “Attenta a Crimson Peak!” tuona indicando il libro.
“Attenta al ragno lì? Ma io non vedo niente…” continua la ragazza.
Il fantasma dà le capocciate alla porta. Del resto, è figlia di un contadinotto che s’è fatto da solo, che può pretendere.
“Cosa vuoi da me?” domanda Edith, che faceva tutta la spavalda quando scriveva le storie di fantasmi, che lei non aveva paura di niente e gnè gné gnè, e ora sta per collassare dal terrore.
“Attenta a Crimson Peak” dice per la terza volta lo spettro sospirando indicando Allerdale Hall.
“E sarebbe?” chiede lei.
“Non posso aiutarti oltre, sennò sei squalificata!” esclama lo spettro. E se ne va.
Un nanosecondo dopo, giusto in tempo per non essere di alcuna utilità, si palesa la cameriera inutile di Edith. “C’è Sir Sharpe di sotto,” dice.
“Oh cielo, che ci fa qui? Mandalo via!” trilla debolmente Edith.
“Ho provato – pure se mi sembra una cappellata,” azzarda la cameriera, “ma dice che non se ne vuole andare.”
Anziché rispondere “Sticapperi, io non scendo sto pure in pigiama,” Edith si erge a padrona di casa e scende.
Lei è sconvolta dalla vista dello spettro, lui sta lì per accollarsi a dovere. Lei prova a dire che sta male, che suo padre non c’è. Lui le dice che lo sa, perché ha aspettato lì fuori sotto la pioggia che il vecchio si togliesse dalle scatole.
Ora, se fosse una situazione normale, se Edith non fosse una che è cotta di questo baronetto decaduto dal primissimo incontro, se fossimo che so, a Roma, nel 2016, ci sarebbero due possibilità. Una darebbe frutto a queste soavi parole da parte della fanciulla: Aho, mo chiamo mi padre se non te ne vai prima de subbito, maniaco!
Oppure, in un’ottica dal più spiccato senso civico, ma con la medesima grazia: Aho, chiamo le guardie, sei ‘no stalker!”.
Ma dove è cresciuta Edith, in mezzo alla gente che lavora, in quell’America dei romanzi che si fa lei in testa, tutto questo non può accadere. Neanche alla figlia di Mario, che risposte del genere le avrebbe belle che stampate nel DNA. A Edith non può accadere nulla, visto che si fa infinocchiare immediatamente da una delle tattiche di rimorchio primordiali, una di quelle inventate nella notte dei tempi e riutilizzare con piccole variabili ad ogni latitudine.
Il baronetto finge di aver bisogno di lei per affrontare quelle serpi americane e i loro usi e costumi, che confessa con modestia e simpatia di non conoscere. Insomma, fa quello sfigatello che ha bisogno di una donna al suo fianco.
Un po’ come quelli che quando ci esci ti raccontano di quanto erano sfigati ai tempi delle superiori. Te lo dicono per far tenerezza, per far leva su quell’innato istinto materno che danno per scontato appiccicato a tutte le donne. Io sono un bimbo sfortunato, tu mi salverai. Ed ecco fatto, Edith va al ballo.
Al mega party dei nostri cari campagnoli non manca proprio nessuno, c’è una folla che neanche da Primark a Londra per i saldi. Ma qui sono tutti molto più silenziosi: al pianoforte si sta esibendo una che di certo ci sa fare. Lo si nota dai volti compiaciuti degli spettatori, tipo la signorina bionda a sinistra dello schermo che – è chiaro il labiale – sussurra al vicino:
“Anvedi questa, meglio di Vasco l’altra sera all’Olimpico!”
Applausi, baci e fiori per lei alla fine dell’esibizione, stile Callas. Ma il momento di gloria si esaurisce subito e tutti – compresa la pianista dal volto perfido- vedono aprirsi una luce al loro cospetto. E la luce è portatrice di che? Di figaggine e di stupore. Arrivano infatti, inaspettatamente, il baronetto e la sua preda. Ohibò gente, ora vi facciamo vedere noi.
Lui è galante come nessuno nel raggio di mille chilometri e toglie il lenzuolo ehm…mantella a Edith che, pivella tra i pivelli, allupata come nessuno nel raggio di duemila chilometri, naturalmente, fraintende:
“Thomas! Che fai, me stai a spoja’? So tutta un bollore!”
“No, Edith, sono solo galante. E poi voglio farmi notare da questa platea di villici.”
“Oddio, ma che davero? Per me? Bollo! Bollo!”
“Diciamo di sì” conclude Sharpe, assecondandola come si fa con i matti e continuando il suo ingresso quanto mai trionfale.
Il trionfo è tutto negli occhi di Edith che subito mette a confronto i suoi due spasimanti: quel figo di Sharpe e quell’allocco del dottor McMichael.
“Alan, sir Thomas Sharpe – sir Sharpe il dottor Alan McMichael, il migliore, se mai vi servisse un medico” li presenta orgogliosa come nessuno e ridendo sotto ai baffi: Questi mi vengono dietro entrambi!
“Mia madre e mia sorella mia hanno parlato molto di voi (sarebbe meglio dire “non fanno che parlare di voi”), sebbene confesso che ho avuto qualche problema a comprendere il vostro titolo”. Classico arrampicamento sugli specchi dello sfigato, al quale risponde prontamente Sharpe:
“Baronetto. E che ci sarà da capire, me lo dirai poi, al terzo giro di whisky.”
“Edith ha avuto la bontà di spiegarmelo” continua il dottorino, compiaciuto di essere trattato da mezzo scemo e grandissimo ignorante. Ma dove l’ha presa la laurea, alla fattoria di zio Slim Jim, che ammazza i polli con un unico colpo secco? E infatti neanche gli rispondono più e il baronetto procede, presentato ad Edith la pianista che finora era stata lì a fissare Thomas.
“Edith, Lady Lucille Sharpe, mia sorella.”
Lei le rivolge il sorriso schifato che riserverebbe ad un piccione investito per strada. “Lietissima signorina Cushing,” soffia, e badate bene che questa frase sta per “brutta ragazzina con le treccine bionde, che cosa vorresti tu dal mio titolatissimo e bellissimo fratellino? Andiamo nel retro, insieme alla servitù a te affine, e me lo spieghi”. Poi si lamenta in modo parecchio scostante e fastidioso del fatto che Edith abbia fatto arrivare in ritardo il piccolo Tommy. In ritardo per i suoi piani malefici, s’intende. E infatti consegna subito al fratello una polla da spellare.
Intanto sullo sfondo, non ce lo siamo mica dimenticato, tranquilli, c’è stato Mario. I suoi pensieri sulla scenetta meriterebbero un tomo a parte, tanto sono vividi, profondi e abbondanti. Riassumeremo tutto in una frase espilcativa:
“Ma guarda che fijia, che all’omo vero, rude e maschio me preferisce ‘sto extracomunitario vestito da mago ambulante, ahò” (trad. it: “possibile che la mia figliola sia affascinata da un figo inquietante e misterioso, nonché povero e straniero?
Quello che dice veramente è un’unica frase, rivolta al dottorino: “Sviluppo interessante, non credete.”
Si fa tutti un po’ fatica a capire a che cosa si riferisca, ma un’idea anche il più misero degli uomini sulla faccia della terra riesce a farsela. Solo uno no, proprio l’interlocutore, che guarda con una faccia stravolta e gli occhi di chi continua a non capire. Ora caro mio, Edith non ti verrà a spiegare anche questo. E un velo pietoso cala anche sulla tua laurea in medicina. Cepu?
Intanto il ballo va avanti.
Dopo aver mostrato ai villici burini di Buffalo raffinatezze europee quali l’uso della forchetta, il non scaccolarsi a tavola e certe sciccherie come mangiare la minestra senza succhiare, la signora McMichael propone che quel figo di Thomas mostri alla plebe ignorante come si balla in Europa in generale, a Vienna in particolare, dato che loro, in quella specie di accampamento di sfigati quali sono, ballano solo il ballo del qua qua. In verità, signori lettori, è tutta una scusa. Una becera scusa per appioppare al belloccio inglese quella sgorbia zitella della figlia.
Prima che la telecamera si punti sul nostro insegnante di ballo da villaggio Valtour, la madre del dottorino, evidentemente già alticcia – insulta Edith, per rimetterla al suo posto. A dire il vero la ragazza se la va a cercare, andandole a chiedere scusa per aver cambiato idea sulla sua presenza al ballo.
“Ma infatti non vi aspettavamo, signorina dei miei stivali”
“Lo so” e farnetica qualcosa sul posto per lei che potrebbe non esserci.
“Non vi preoccupate, ognuno ha il poso che le spetta. Mi assicurerò che troviate il vostro. Che potrebbe essere o tra la servitù (aridaje) o nelle stalle. Ci penso un attimo poi vediamo.” e se ne va, col sorriso simpatico come i filetti di verdura tra i denti al vostro primo Gran Galà.
Intanto sullo sfondo c’è quella cessa della figlia che, come Mario, è lì per pensare. Lei precisamente in questo momento ha una scimmia con un tutù rosa che balla la danza della vittoria delle tribù della bassa bergamasca.
Ma torniamo al baronetto, che sta iniziando a spiegare i movimenti delle braccia di YMCA.
“Ok. La prima cosa da sapere, quando si balla il valzer, è che per essere fighi come me bisogna tenere in mano una candela. Accesa. Non solo non si deve spegnere, ma dovete stare doppiamente attenti a non appiccare fuoco alle tende e a voi stessi, che lì scatta la tragedia. Lo fanno, lo fanno,” spiega.
Poi si avvicina verso la sgorbia e, in corner, sterza su Edith. “Vuole concedermi l’onore di questo ballo?” domanda il figaccione.
“No!” risponde Edith. “Questa qua accanto a me mi caverà gli occhi se accetto! Invita lei, ne sarebbe felice!”
“Lo so, lo vedo,” mormora schifato Sir Sharpe, professione baronetto. “Ma io l’ho chiesto a te.”
Lei, neanche a dirlo, si fa convincere appena lui pronuncia quella semplice frase e le porge la mano… gettando al vento l’altruismo che fingeva di avere.
“Ma sì, ma dai, andiamo! e quando mi ricapita più!”, e si fa trascinare in pista.
Intorno c’è un silenzio sconcertante, mai vista una festa così piena di impiccioni (tutti li guardano) ma con così poche cose da dire. Ma a loro gliene strafrega e l’esibizione può avere agevolmente inizio, con accompagnamento al piano della solita amabilissima Lucille.
Edith però, si accorge subito che probabilmente sta facendo una cappellata. Sarà per quella candela in bilico, sarà perché Sharpe, professione baronetto, è figo ma qualche stranezza ce l’ha. Sarà perché tutti li fissano, sarà perché quello è il posto assegnato alla sgorbia, che sta cucendo in fretta e furia una bambola voodoo a sua immagine per piantarle spilli negli occhi. Da chi non si sa poi, probabilmente dagli usi e costumi rurali della zona.
Lui, per non saper né leggere né scrivere, le consiglia di chiudere gli occhi, come fa ogni volta che qualcosa lo mette a disagio.
“Se, adesso chiudo gli occhi con questa candela che tremola, aiutata dall’alcool che già ci scorre nelle vene?” e mo’ ce la freghi quella lenza di Edith.
Intorno sono ancora tutti abbastanza attenti, si vede che da quelle parti non accade mai nulla. I due, finalmente, iniziano a ballare, tra gli sguardi da intenditori di gente che al massimo una volta ha visto Ballando con le stelle e neanche ha capito la differenza tra il valzer e il tango.
Gli osservatori più attenti e critici sembrano essere lo sgorbio e la madre e l’immancabile Mario Cushing. Sempre sullo sfondo, dalle espressioni loquaci quasi più delle parole.
Nelle prossime puntate: Mario B. Cushing, accortosi del pericolo imminente, tenta di evitare che quella rimbambita di Edith si fidanzi col tenebroso e fascinoso sir Thomas Sharpe…
N.d.A.
Ebbene sì, Lettori: siamo tornate con una parodia. Ci auguriamo che vi piaccia e la vogliamo dedicare a tutti voi e, in particolare, a Verdone, Mario Brega e Manuel Fantoni, impagabili fonti di ispirazione.
Le Cicale
Bene! Benissimo!
La prima parte di questo capitolo di pregevol fattura, si innesta e avviluppa su una tematica archetipa che ben s’attaglia al sapor gotico della pellicola esaminata: il rapporto tra la fiamma del proprio figliuolo (che nessuna ha la minima intenzione di strappare alle crinoline di mammà) e la improponibile futura suocera. La fanciulla chiaramente esprime il proprio pensiero, augurando la morte della prole maschile della simpaticissima.
La Cicala Claudia svolazza sicura sulla narrazione, minando il nostro aplomb da extracomunitari inglesi, facendoci sbellicare con i fini richiami alla politica economica redistributiva. Ah, questi baronetti!
A proposito di nobili parassiti: potrei non aggiungere altro, poichè il biglietto da visita del nostro Sharpe vince tutto, anche la ciotola di caramelle alla frutta della zia ottuagenaria! Tuttavia…
La seconda parte dell’opera enuclea la teoria tutta partenopea secondo cui “L’omm adda puzzà”, perchè se non ha i calli di Scarlett O’Hara causati dalla piantagione di pomodorini Pachino D.O.P. e un tanfo da ascella commossa non sei nessuno. Il Cushing subirà un crudele contrappasso a causa dell’igiene. Lui ancora non lo sa, ma noi sì! (E getto il seme che il buon Thomas, in realtà, sia un potentissimo “menaseccia”!)
Ma d’ora in poi, il commento potrebbe essere racchiuso nelle espressioni che le diapositive, superbe come sempre, cristallizzano: uno sprovveduto signorotto di brughiera, da un lato, una signorina americana con l’ormonella, dall’altro. Uno scontro tra titani: sguardo Ammazzacicala contro occhietto Cometimuovitifulmino. Non c’è storia. Come abilmente ed ironicamente svela la Cicala, vince Sir Sfiga per 100 a zero.
Ma veniamo alla terza parte, ove la fantasia della Cicala Claudia si sbizzarrisce, tra i volteggi dei due ballerini con stearica in omaggio, piovono perle di umorismo à gogo, citazioni colte, diapositive che fanno perdere ogni controllo alla mascella, che rischia di sganasciarsi per il gran ridere.
Concludendo: la rodata squadra delle Cicale manda alle stampe una nuova, grande parodia, che sembra offrire ancor più frecce al già fornito arco del duo comico. Niente è consegnato al caso: ogni frase tende al coup de maitre, alla tirata coi perfetti tempi teatrali di fine comicità, alla risata sincera, grassa, aperta che solo la vera empatia col lettore sa scatenare.
Avanti tutta, CHICale!
PS: C’è sempre spazio per un Lokino o un Christone, nevvero?
Oh Emiliana, noi Cicale ti adoriamo. E partiamo dalla fine. C’è sempre spazio per Loki e per Chris, ma quando cercavo l’immagine del taglialegna (e daje con l’aneddotica) avevo in mente un uomo barbuto, non bello e sinceramente inquietante. Mentre cercavo però m’è uscita questa foto di Chris e allora ho pensato che fosse destino.
Come al solito hai colto ciò che volevamo fosse colto. Il Cushing mal sopporta quel fighetto di Sharpe, mirando a piazzare la figliola con Alan l’Accollo Allocco. Edith è cotta e cerca di recuperare anni di asocialità e schifo verso l’altro sesso nel tempo record di una serata, la signora McMichael sperimenta la sfiga del parlare troppo presto. Sir Sharpe, poveraccio incallito costretto a riciclarsi mago e cosplayer sta uscendo un filo marpione, in questa parodia. Possiamo dirti che già siamo all’opera sul secondo capitolo, dove andremo nel vivo della vicenda e della parodia! 😀 😀 Le Cicale ringraziano 🙂 🙂