L’Amante Giapponese: considerazioni

Ci sono libri che rimangono appiccicati alla pelle, si mescolano col nostro respiro, scivolano nel nostro sangue. Rimangono, come se si fossero andati a gettare nell’oscurità delle nostre ombre, e lì restano. Per sempre. Uno di quelli che condividiamo noi Autrici, è La casa degli spiriti di Isabel Allende.

Dopo quel romanzo meraviglioso, abbiamo letto altre cose della nota scrittrice. L’ultimo, in ordine di tempo, è L’amante giapponese. Lo abbiamo definito nello stesso modo, guardandoci negli occhi. “Non è la casa degli spiriti.” E non è nemmeno il bellissimo Inès dell’anima mia. È qualcosa di nuovo, diverso, ed imperfetto. Intendiamoci, non è che il romanzo non ci sia piaciuto. È che noi i personaggi li abbiamo sviscerati, analizzati. Ne abbiamo parlato con carta e penna alla mano, ci abbiamo pensato, riflettuto e abbiamo dato vita a questa recensione a quattro mani, prima di una serie.

La trama

In breve, senza spoiler, la storia. La ricchissima e stravagante Alma Belasco decide di trascorrere gli ultimi anni di vita in una sorta di residence per anziani radical chic. Vuole mettere ordine alle sue cose e, per farlo, chiede l’aiuto di una inserviente di origini moldave, Irina. Complice anche l’interessamento dell’adorato nipote Seth, la donna ripercorre le tappe della sua vita, divisa tra due grandi amori.

Partiamo subito col dire che la parte del romanzo dedicata ai flash black della vita di Alma, è senz’altro la più bella e coinvolgente. La particolarità della personalità di Alma sta nel dividere, letteralmente, la propria anima in due. Da una parte c’è l’amore erotico, passionale, carnale, con Ichimei, l’amore di una vita inseguito disperatamente. Dall’altro c’è l’amore, altrettanto forte, dell’amicizia e della comunanza di spirito nutrito verso Nathaniel. L’equilibrio di tale triangolo è raccontato con la delicatezza di un giardino giapponese. Ma è davvero un dividersi in due? Un dilaniarsi?

Ichimei e il Giappone

Ichimei è il personaggio che a nostro parere meglio emerge in tutto il romanzo, quello più caratterizzato, quello più vivo. Sin da quando si descrive Ichimei bambino è lui a monopolizzare la scena, ad essere descritto nei piccoli particolari, nei comportamenti, rendendolo reale. Vediamo Ichimei che gioca, Ichimei che osserva, Ichimei che ama. L’autrice riesce a dargli uno spessore nelle piccole cose, nei particolari. Come lui anche tutta la sua famiglia viene senza dubbio messa da Allende su un piedistallo ideale: qualche musa deve probabilmente aver avuto una certa predilezione per questi giapponesi e si è quindi presa la briga di aiutare Isabel, già fortunatamente e abbondantemente amica delle muse.

I genitori di Ichimei rappresentano il Giappone, la tradizione, e con pochi tratti portano in scena alcuni tratti tipici dell’emigrante, in particolare quello asiatico. Non da meno sono i fratelli, figli di una nuova terra, che parallelamente agli anziani, si fanno portatori di sentimenti e difficoltà tipici delle seconde generazioni. I fratelli alle prese con la guerra e Megumi, la sorella, alle prese con l’amore.

Discutendone ci siamo chieste, in realtà, quanto l’immagine del Giapponese cortese e riservato, con difficoltà di inserimento nel paese d’accoglienza e l’amore per la tradizione fosse solo un facile stereotipo. Forse, ma ci è piaciuto e lo consideriamo funzionale al racconto. I personaggi ne giovano e il lettore altrettanto.

Irina e Alma: le due protagoniste

Ciò che, invece, non convince del romanzo è, paradossalmente, il presente. A fronte di personaggi forti, che escono letteralmente dalle pagine del romanzo come la generazione del padre di Ichimei i Belasco senior, e degli stessi protagonisti della storia (Alma, Ichimei, Nathaniel, Megumi), abbiamo una giovane generazione fiacca. Il nipote di Alma, l’adoratissimo Seth, non esce dal cliché del giovane ricco, di bell’aspetto, gentile che sa guardare nei cuori di chi incontra. Non fa mai un passo falso, anzi. Stoico in maniera poco realistica e credibile, sembra dipinto in fretta. La delusione più grande, tuttavia, è Irina.

Irina ha la maledizione di non coinvolgere il lettore. È colei che Alma sceglie per raccontare il suo passato, diventandone, ben presto, la pupilla. È anche il nostro tramite con il racconto. È attraverso i suoi occhi che conosciamo Alma. Eppure non riusciamo ad avere empatia con lei, nonostante Allende faccia del tutto per stimolare la pietà del lettore. Qualsiasi disgrazia possibile, Irina l’ha avuta facendosi portatrice di una storia di una crudezza estrema, che vuole proiettare le brutture del Ventunesimo secolo inserendo fatti di cronaca, senza riuscire a penetrarli: è come se ripetesse una poesia in una lingua sconosciuta o parlasse di cose di cui non comprenda la gravità, per regalare infine, come nella più classica delle fiabe, un destino immeritato, immotivato, irrealistico. Per questo Irina, casomai, a tratti infastidisce il lettore che non capisce come tanta perfezione e bellezza posano risiedere in una donna così poco interessante e che mentre legge si chiede quanto debbano ancora durare quelle pagine e attende impaziente di tornare alle vicende che hanno come protagonisti Alma e gli altri.

Anche Alma ha avuto le sue buone dosi di disgrazie. Originaria della Polonia, viene mandata ancora bambina in America per sfuggire al clima oscuro che sfocerà nella Seconda Guerra Mondiale. Ora, di libri che parlano di Shoa e della seconda guerra mondiale, ce ne sono un’infinità e Allende non aggiunge nulla di nuovo, nemmeno un occhio più fresco al tema: l’essere ebrea di Alma si rivela, dunque, una caratteristica finta, inutile e inutilmente pietistica, non riuscendo a cogliere il senso dell’identità e della mancanza. Siamo abituati a leggere libri sugli ebrei e sull’ebraismo, scritti da ebrei, a guardare film e a farci raccontare da loro storie. Abbiamo benissimo in mente i diversi modi di raccontare l’essenza di un popolo tanto controverso, unico nel bene e nel male: l’ironia di Woody Allen, la profondità di Amos Oz, l’acutezza di Philip Roth, passando per i strazianti racconti della shoah. Dalla Bibbia in poi, e lo diciamo senza ironia, tutti ci hanno raccontato dell’ebraismo nei modi più diversi. Crediamo di sapere moltissimo sugli ebrei, più di qualsiasi altro popolo. Ed è per questo, molto probabilmente, che il giudaismo di Allende non decolla, lascia insoddisfatti. Anche qui ci si chiede: perché l’autrice inserisce questo elemento, quasi fine a se stesso?

Con un passo indietro ci si potrebbe chiedere anche il perché di questa sequela di disgrazie, quasi alla ricerca del sensazionalismo. Alcuni sembrano cliché e anche dopo averne parlato non riescono a convincerci. C’è davvero bisogno dell’Olocausto e delle disgrazie di Irina in successione?

Il realismo magico e i luoghi

A fronte di certi comportamenti “fiabeschi,” come l’irreale attesa di Seth, manca ciò che ha contraddistinto la letteratura sudamericana del Novecento. Il realismo magico qui è completamente assente e, senza di esso, giustificare azioni cicliche o anacronistiche risulta al lettore difficile, anzi suscita incredulità. L’Europa del Ventesimo secolo, protagonista assente ma sempre evocata – sia Alma che Irina sono originarie del Vecchio Continente, si rivela così per la Allende un terreno insidioso, dove è fin troppo facile scivolare, e proprio lì dove, invece, avrebbe dovuto insistere – Samuel, il fratello biologico e amatissimo di Alma, finisce per passare con fin troppa leggerezza.

L’Amante giapponese si configura così come un interessante esperimento che, pur non convincendo il lettore nella sua totalità ci ha soddisfatte. Vi invitiamo a leggerlo e a farci sapere che ne pensate.

Claudia e Sara

 

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